Attualità
Da Cosic a Disneyland
Oscar Eleni 25/05/2020
Oscar Eleni dai tavoli impolverati del Floridita nella nobile città dell’Avana. Un sogno, un ricordo. Mondiali di scherma, Valentina Vezzali per affondi decisivi, Flavio Vanetti come ancora di salvezza per l’inviato del Corsport che soffriva di solitudine e pasti separati da chi contava: una notte al Floridita come al tempo di eamingway, ascoltando la Cuna del Daiquiri e bevendoci sopra.
Rifugio in tempi da imbuto culturale, nei giorni grami dove chi le spara più grosse diventa virologo di stato o, magari, soltanto un cantante in fuga dalla depressione e dai dinosauri come Al Bano mentre in TV vanno i film sulla strage dove morì Falcone, dei giorni in cui Borsellino fu sacrificato al potere, bellissimo, ma certo sottovalutato, quello di Ricky Tognazzi, figlio di Ugo e Pat O’Hara, con Palminteri, Luotto, Favino e il Murray che poi deve aver anche ispirato il Traditore di Bellocchio affidando il personaggio di Buscetta all’attore italiano del momento.
Vedi e pensi. Todo cambia, diceva la cantante in Habemus Papam. Non è vero. Magistrati in guerra oggi come allora. Politici a caccia di voti a qualsiasi costo e allora nella riapertura perché scandalizzarsi se tutto aumenta e se domani, forse, non ci sarà niente di fresco sulla tavola. Sbattendo la testa sul bicchiere siamo felici che abbiano trovato soluzioni cartonate per il calcio, nella speranza che non sia più Topolino Sport, il breviario dello sportivo di oggi costretto ad applaudire arrampicatori sugli specchi che al mercato ci vanno troppo spesso per non credere che siano dipendenti da quella specialissima droga così lontana dall’ideale sportivo anche oggi che gli studiosi come Frasca hanno confermato che il barone De Coubertin, discendenze italiane, non ha mai detto che l’importante è soltanto partecipare.
Mentre Lotito insinua come troppe volte, mentre Mancini fa benissimo ad obbligare Oriali a restare con Inter e Nazionale, mentre Parigi potrebbe accogliere allenatori italiani esuli, più Allegri di Spalletti, prendiamo nota dei disastri Covid per due partite di Champions nel calcio. Pazienza. Una soluzione si trova. La NBA ha scelto Disneyland (e dove altrimenti?) per concludere la stagione e avere tutti soldi dalle TV cominciando da ESPN. In Europa si potrebbe finire l’eurolega nella casa parigina di Topolino dove una volta andammo per vedere il vero Ronaldo premiato davanti al mondo, anche se la crisi di fame e solitudine ci fece perdere l’incontro con Pelè che invece colleghi di qualità, resistenti, veri inviati, avevano potuto intervistare nel bar vicino al palco.
Per l’Italia scartate le mascherine federali, le partite all’aperto, non quelle di tre contro tre che si potrebbero anche fare visto che sul ridotto andiamo meglio che sul campo grande e la porta olimpica sembra più larga ammesso che ci siano Olimpiadi e i rinvii al 2021 trovino prima il vaccino, nella speranza che possa bastare e possa essere dato a tutti senza finire nelle mani degli usurai, uguali, oggi come ieri, ai tempi della peste, della guerra, di qualsiasi crisi dove a cadere sono sempre i poveracci anche se nella rete ci cadevano pure i Don Rodrigo.
In questa primavera sconsiderata dove uno spritz vale più della vita, non la tua, ma quella degli altri, mentre sentiamo voci lontane che manderebbero a casa allenatori che hanno fatto cose bellissime in una stagione travagliata, stupiti, ma preparati all’ignoranza dirigenziale, una telefonata dai monti naviganti ci ricorda che forse “Non abbiamo più tempo” come dice quella poetessa serba. La voce di un mondo che ci hanno cambiato troppe volte ricorda che il 25 maggio, a Baltimora, il linfoma di Hodgkin ci rubava, a soli 46 anni, Creso Cosic. Il più grande sul campo, il genio nato a Zagabria, cresciuto però nel liquore purissimo di Zara, l’uomo che ha esplorato mondi lontani quando noi eravamo fermi alle biglie sulla spiaggia dei dai e vai.
Campione, vescovo della sua chiesa conosciuta fra i mormoni dello Utah, ambasciatore del libero pensiero, della sua Croazia, anche se addolorato da quella guerra civile che fece diventare nemici fratelli che avevano ballato alla grande sui campi del mondo. Come pivot che sapeva chiedere ai registi di fare l’operaio, visto che l’architetto era nel cuore della difesa a far impazzire qualsiasi avversario, è stato immenso e non abbiamo ancora deciso se, dopo essere stato All’America con gli univeristari di Brigham Young, abbia fatto bene a rinunciare alla chiamata della NBA.
Lo aveva scelto Portland nel 1972, l’anno dopo lo volevano i Lakers. Ci sarebbe piaciuto capire cosa poteva fare un genio in terra nemica. Meglio così, forse, diranno a Zara, Lubiana, Bologna e non soltanto i virtussini, Zagabria. Molto meglio per le Nazionali dei plavi che con lui hanno vinto tantissimo davvero e a Mosca 1980 l’Italia di Gamba gli rese omaggio inchinandosi alla sua grandezza.
Caro Creso, che arrivato fra i mormoni, come ci dice Tavcar nel suo libro fondamentale per capire la storia del basket jugoslavo, dopo aver sentito che nel campus erano vietati alcool, fumo, figurarsi le droghe o le donne, chiese con il suo mefistofelico candore: ”Ma cosa fate per divertirvi?”.
Un regista di 2 metri e 10, un gigante, il tipo giusto per incantare Bologna, Porelli che nella sua testa aveva Sinatra, My Way, ma anche la capacità di assecondare sia il generale sia il genio. L’uomo dei sogni che spesso ti lasciava entrare nel suo mondo. L’uomo che da una finestra di Trieste chiedeva quando sarebbero arrivati gli invasori, un tipo geniale e coraggioso anche come allenatore, ma quel ruolo gli andava stretto, troppo distanti certi cervelli all’ammasso, soprattutto dopo la perdita dell’innocenza. Certo lui era nato in quella grande scuola, sapeva cosa aveva fatto Ranko Zeravica per proteggere i suoi giovani talenti, conosceva il rigore dei tempi del professor Nikolic anche se a Zara sognavano cose diverse.
Caro Creso prendi questo fiore che ti lanciamo dalle isole che non ci sono più. Hai fatto diventare questo mondo un posto più bello. Peccato che ti abbiano chiesto di andare altrove troppo presto.