Com’è brutto senza calcio da Trieste in giù

24 Maggio 2013 di Federico De Carolis

A Nord Est niente di nuovo, neppure al Centro e tantomeno al Sud. Dopo i verdetti dell’ultimo campionato non c’è una squadra in A da Trieste in giù, fino a Lecce. Forse la geografia calcistica rispecchia in qualche modo quella economica, ma lascia almeno un’impressione negativa se la vecchia Triestina non appare quasi più nelle cronache nazionali o che più giù lo stesso Padova sia alla disperata ricerca di un ritorno ai grandi livelli da diversi anni. La stessa Repubblica di Venezia, dopo aver chiesto a gran voce uno stadio, ha segnato mestamente il passo.

Più giù, dopo la retrocessione del Pescara che in una sola stagione ha bruciato anni di speranze e di ricerca del top, neppure tra Bari e Lecce splende più il sole della serie A. Una geografia calcistica che si è spostata a Ovest, dove ristagna per la verità da sempre, e Nord dell’Italia. Se non ci fosse il Napoli, la stessa penisola risulterebbe orfana, a Sud, di una presenza valida e concreta, mentre l’isola è salva con il Catania e la Sardegna con il Cagliari ha consolidato da anni la sua permanenza nella massima categoria. Perché succede questo e città che appaiono, nonostante la crisi, economicamente decenti, non riescono a esprimersi a livello superiore?

Dicono che Trieste abbia passato la mano, dopo i vani tentativi di raggiungere la massima categoria, ma sotto le ceneri evidentemente cova qualcos’altro se persino per vedere il Cagliari, sia contro qualche grande, ma anche con le piccole, di gente al Rocco ne è andata parecchia. Un vecchio triestino mi raccontava che l’amore per la città e la sua alabarda sono tramontati da sempre e per sempre: non c’è più un nucleo doc disposto a sacrificarsi, ma soprattutto non ci sono capitalisti disposti a impegnarsi nel calcio per paura di una esposizione che potrebbe compromettere le loro stesse attività.

Padova, con il presidente Cestaro, ce la sta mettendo tutta da qualche anno, per venir fuori dalle secche in cui è rimasto impantanata per molto tempo tanto che per andare a ritrovare una sua presenza in A, dopo Rocco e la sua brigata che arrivò a uno splendido secondo posto, bisogna risalire agli anni ’90, ma senza che si arrivasse a lasciare un segno tangibile con lunga permanenza. Qualche stagione e via verso il precipizio, ancor oggi senza una risalita.

Venezia ascrive le sue disgrazie all’abbandono di Zamparini che, certo, non era e non è veneziano, mentre armatori e industriali sembrano addirittura non esistere se non fosse per il basket mai tuttavia esploso. Eppure se la vecchia incantevole città non ha più abitanti, ma solo presenze turistiche e rappresentanze burocratiche, la sua costola Mestre è una città vera e terrestre con possibilità enormi. Magari arrivasse uno sceicco da quelle parti che amasse la sfida, ripartendo dal basso, chissà…

Al centro, Ancona dopo un’apparizione imprevista e piovuta dal cielo, con l’abbandono forzato di Longarini, annaspa da sempre nelle serie inferiori dopo un fallimento che finì per lasciare il segno e soprattutto sconsigliò di intervenire, a chi ne avesse avuto voglia. La stessa Pescara ha finito per cancellare in una stagione quel che aveva preparato in tre, grazie a dirigenti oculati che, dopo aver scongiurato un fallimento largamente annunciato e aver escalato laA, ha mostrato che l’aria d’altura non le si confà, visto che salita per cinque volte, ha praticato la massima categoria solo per due stagioni in successione.

Poi, c’è l’Ascoli con la sua ultima caduta addirittura in serie C. Chi avesse avuto qualche dubbio in  materia deve ricredersi: il profeta calcistico della città era Costantino Rozzi e solo lui, Dalla C alla A per una permanenza ultradecennale, qualche scivolone al quale fu capace di porre subito rimedio. La sua fine è stata anche la fine dell’Ascoli, capace do far sognare almeno due regioni come Marche e Abruzzo. Persino la Sambenedettese, una volta in pianta stabile in B, è scomparsa tra i dilettanti.

 Si può andare a Bari per avere in mano il senso della parola crisi. Qui i Matarrese, con alti dirigenti come don Antonio che ha addirittura presieduto la Federazione, da qualche tempo sembra non vogliano più saperne. Gli anni e gli affanni li hanno consigliati a un impegno che è stato fino a due anni addietro il preludio a un’uscita da quel mondo che ha regalati loro grandi soddisfazioni, ma anche succhiato un pozzo di quattrini. Niente da fare. Ogni anno spuntano fuori nomi di acquirenti che, alla resa dei conti, dimostrano di non avere soldi per ripianare almeno il passivo di una società che pure ha un potenziale da A e che potrebbe praticarla con grandi soddisfazioni.

Evidentemente il calcio non alligna all’Est dell’Italia e le città marinare o circonvicine non hanno l’aplomb per conquiste stabili. A soffrire di questo stato sono i tifosi, ma in qualche modo anche l’immagine di centri che hanno un’importanza notevole in altri campi nazionali e internazionali. Che fare? Niente, se non tenere il broncio e aspettare giorni migliori nella speranza che una conquista non sia vanificata in pochissimo tempo per superficialità o incompetenza. E’ certo che a soffrire di questo stato di cose è un’intera costa che si vede negata la partecipazione a qualcosa che potrebbe ottenere e ha ottenuto negli anni passati. Non dovrebbe essere un caso una presenza con permanenza stabile, è quasi una regola al contrario scomparire nelle categorie inferiori dopo presenze che hanno il sapore di una toccata e fuga. La spiegazione è probabilmente una sola, in parte già prima l’abbiamo accennata: gli imprenditori di grossa taglia in certe regioni stanno alla larga dal calcio, per mille motivi (fiscali, culturali, di immagine) mentre in altre sono convinti che il pallone possa essere funzionale al resto delle loro attività.

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