C’è solo un Kenya

25 Ottobre 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
Il 25 Settembre di quest’anno, a Berlino, è stato l’ennesimo giorno storico per la Maratona. Patrick Makau, ventiseienne, rincorrendo il bis nella manifestazione tedesca ha strabattuto il primato mondiale della distanza. Due ore, tre minuti e trentotto secondi. Il venerabile maestro etiope Gebrselassie lo ha tenuto fino al ventisettesimo chilometro, poi ha dovuto alzare bandiera bianca. Se la corsa che conduce alla Porta di Brandeburgo è stata sovente terreno fertile per i piedi veloci, il primo record (nel 1998) fu stabilito da Ronaldo Da Costa (2h06’05”), la quinta prodezza della serie pare gettare un ponte verso il futuro.  I 10.000 metri iniziali in 29’17”, seguiti dal passaggio al chilometro venti in 58′ 30″ e la Mezza in 1h 01’44”. Poi, incredibile ma vero, l’exploit dei 10 chilometri più ingannevoli, ovvero quelli tra i venticinque e i trentacinque: 28’58”!
Un parziale che rivela la nuova carne dei 42 e 195, una specialità trasformatasi ormai in un esercizio di mezzofondo prolungato.
Kenya quindi, ultima frontiera.
Al 9 Ottobre, ventinove trionfi nella ultime trenta Maratone ci raccontano l’anima dell’atletica contemporanea. Infatti qualche dì dopo il numero di Makau, nello stesso giorno, gli atleti keniani hanno dominato a Carpi, Eindhoven e Chicago. Nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti occupando addirittura i tre gradini del podio, lo stesso scenario di Daegu nella gara femminile. Un potere dispotico, scoraggiante per la concorrenza, una selva di talenti senza soluzione di continuità: Mutai, Kirui, Makau, Mosop, Kipruto, Kiprotich…
La stirpe che sta riscrivendo la storia della corsa è una combinazione, curiosa, di predisposizione genetica e fattori geopolitici.
I coloni britannici, padroni di quel pezzo di Africa, crearono il Kenya forzando (stuprando) la storia di quelle terre. Diedero vita a uno stato fantoccio, spezzando i confini tribali e tradizioni antichissime. Portarono anche la loro cultura sportiva: nel 1922 fondarono l’African and Arab Sport Association e, due anni dopo, la sezione di atletica leggera.
Imposero su tutta la linea il modello; in fondo, promuovere lo sport occidentale era più utile al loro scopo rispetto all’istruzione degli indigeni stessi. Dal 1963 in poi, l’anno dell’indipendenza, gli schiavi hanno imparato e messo in pratica la lezione: vincere sull’asfalto o sul tartan significa scappare dalla povertà e costruirsi un benessere materiale altrimenti utopico.
Impossibile scostarsi dagli stereotipi se analizziamo al meglio il dna di settanta etnie.
Che magari vivono in altitudine, sopra i 1500 metri dal livello del mare, sviluppando una concentrazione di globuli rossi nel sangue che li favorisce nello sforzo aerobico. I Kalenjin, una delle tante tribù, sono celebrati come guerrieri e ladri di bestiame capaci di compiere centinaia di chilometri, in una sola notte, per radunare gli animali rubati. Pratica vivaddio desueta oggi, come rituale iniziatico estraevano i due incisivi inferiori centrali ai bambini; che a dieci anni dovevano mostrare la loro forza senza lamentarsi. Il morente, vecchio o malato, in alcuni casi viene ancora oggi abbandonato nella prateria, sacrificato alle iene. Razze che hanno quindi nei cromosomi il superamento della soglia del dolore, sempre e comunque.
Sono entrambi nandi, sottogenere dei Kalenjin, le stelle polari dell’atletica keniana. I precursori che edificarono il dominio paranolitico e bantù: il leggendario Kipchoge Keino e il grande Henry Rono. Kip infranse il tabù e spinse in là i limiti delle specialità che dominò. Due ori olimpici, nei 1.500 a Città del Messico e nei 3.000 siepi a Monaco di Baviera (la foto si riferisce proprio a questa gara). Il trionfo messicano, storico, fu emblematico del suo talento; diede venti metri al favorito della vigilia, il primatista mondiale Jim Ryun, al termine di un’accelerazione di quasi due giri. Quella vittoria, epocale, unì finalmente una nazione. Keino, un mito in carne e ossa, seppe mantenere questo status anche finito l’agonismo.
Ancora oggi, Presidente del Comitato Olimpico nazionale, è il deus ex machina di un orfanotrofio che ha accolto, dal 1972, centinaia e centinaia di bambini finiti sulle strade delle bidonville. Un Gesù nero.
Henry Rono, che cominciò l’avventura da runner proprio ispirandosi a Kip, rappresenta invece l’antieroe, il campionissimo reietto.
Una vita sulle montagne russe, in equilibrio precario tra la gloria e l’autodistruzione. L’uomo dei trenta chilometri e delle quaranta birre al giorno, perennemente rincorso dalla depressione. Eppure, travolto dagli eventi della sua esistenza, esibì una classe purissima. Detiene ancora oggi, lo stabilì nel 1976 (!), il record dei 10 chilometri di cross più veloci della storia Ncaa. Nel 1978 vinse cinquantasei gare e abbattè, in soli ottantuno dì, quattro primati mondiali di altrettante specialità. I 5.000 ad Aprile, i 3.000 siepi a Maggio, 3.000 piani e 10.000 a Giugno: qualcosa di irripetibile prima e dopo di lui. Henry affogò nell’alcol la carriera; provò a riesumarla, talora con successo, ma ogni volta (ri) cadde facendo sempre più fragore. Finì, per sbaglio, in galera; per sopravvivere, perso negli States più profondi, divenne facchino all’aeroporto, lavamacchine.
La sua vicenda è ancora un simbolo della fragilità di queste antilopi africane. Costrette ad emigrare in America o in Europa, dopo una selezione in patria crudele, darwiniana: appena il cinque per cento di loro approda al professionismo. Il ricambio continuo, folle, permette la qualità intrinseca dei corridori; che abbandonano la pista seguendo la scia del denaro, oggi quasi tutto sulla strada. Non fossero intrappolati nell’onanismo decoubertiniano (oh, l’argent…), i federali stabilirebbero criteri di selezione intelligenti per Londra 2012. Il sogno, che rimarrà tale per i limiti neuronali del Cio, è di assistere a una Maratona olimpica con almeno venti atleti provenienti dal Kenya, gli etiopi giusti (eterni rivali) e gli altri, la rimanenza, a far da contorno aureo. In una contesa dall’eccellenza assoluta, forse l’ennesimo passo che ci condurrà all’abbattimento del muro delle due ore.


Simone Basso
(25 ottobre 2011)

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