Wisconsin come una volta

8 Aprile 2015 di Stefano Olivari

Perché tifavamo Wisconsin nel torneo NCAA, che lunedì Duke ha conquistato per la quinta volta nella sua storia battendo in finale proprio i Badgers? Fin troppo facile la risposta: in un mondo ipocrita, in cui anche il mitizzato coach K si è convertito agli ‘one and done’ (solo che i suoi vanno mediaticamente bene, mentre quelli di Calipari sono da italiano intrallazzone), vedere arrivare in finale una squadra fondata su ragazzi locali (a partire dal quintetto base, non dagli agitatori di asciugamani) e non sul trasferimento di campioni di New York o Chicago è stato un po’ come respirare l’aria del basket di college di una volta, che siamo abbastanza vecchi per avere visto (in televisione) quando ancora non esisteva il limite di tempo per azione (!). Michael Jordan e James Worthy, per citarne due a caso, sono cresciuti in North Carolina… Sentire alla presentazione delle squadre “From La Crosse, Wisconsin” (Bronson Koenig), “From Port Washington, Wisconsin” (Josh Gasser) e “From Sheboygan, Wisconsin” (Sam Dekker), pensiamo abbia emozionato anche chi come noi non ha alcun punto di contatto con il Wisconsin. E non deve ingannare l’origine di Frank Kaminsky perché Lisle, Illinois, è a due ore e mezzo di macchina (niente, per gli standard americani) dalla sede del college ed in fondo nemmeno di Nigel Hayes (Toledo, Ohio, sei ore di auto) viene da un altro mondo. Detto questo, la squadra di Bo Ryan (la storia più bella della Final Four è stata quella di Roy Williams, allenatore di North Carolina, che ha comprato un biglietto per il padre di Ryan morto da pochi anni come a dire al collega ‘Tuo padre è qui con te’) era tutto tranne che una Cenerentola visto che la sua struttura era la stessa che arrivata alle Final Four 2014 (sconfitta con Kentucky, vendicata quest’anno nella più bella partita del torneo), a partire da Kaminsky e che alla vigilia della March Madness era considerata la seconda squadra della nazione, dietro all’apparentemente invincibile Kentucky e almeno alla pari con Duke. Conclusione? Un torneo iniziato in sordina, ma che nel finale ha mostrato partite che sono la summa della pallacanestro e fatto dimenticare il livello tecnico sempre più basso del gioco, ormai in quasi (il ‘quasi’ dipende dalla diffusione delle difese a zona, che impone anche un altro tipo di attacchi) tutte le grandi bruttissima copia di quello NBA, anche se non dei giocatori che in alcuni casi fanno sognare margini di crescita immensi: se Okafor è più reclamizzato e di prospettiva, Towns è già adesso il centro dei nostri sogni, mentre del torneo esce con una dimensione nuova Justise Winslow (il migliore di Duke, anche se il premio nella finale è andato a Tyus Jones). Li rivedremo tutti, come li abbiamo visti grazie allo streaming (purtroppo non ufficiale, ma non c’era alternativa) e dai Regional in poi grazie all’ottimo lavoro di Sky (perfetto l’equilibrio Mamoli-Bonfardeci, con giuste parti didattiche per i non iniziati anche se dubitiamo che alle 5 del mattino ci fossero davanti al video spettatori occasionali), sperando che i minimo due anni di NCAA che sono nella testa di Adam Silver diventino obbligatori.

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