Uomini dinamite

9 Maggio 2011 di Oscar Eleni

di Oscar Eleni
La gatta di Gianni Menichelli, le scelte di Rigas, lo spietato Obradovic, i generali di Pianigiani, i prospetti del Real Madrid, il rendimento dei lituani, i colpi di Sato e il Far West italiano.


Oscar Eleni dal set di Uomini dinamite, con il vestito buono di James Stewart, l’attore che urla al mondo una verità che ci viene sempre in mente quando vediamo una squadra festeggiare il suo titolo e l’altra rimuginare sulla sconfitta: ”Dio si serve dei buoni, e i cattivi si servono di Dio”.
La ripetevamo spesso negli spogliatoi, nelle bisbocce di fine partita, lo facevamo per sfogare la rabbia del pronostico sbagliato, lo avevamo fatto anche quella notte di 25 anni fa salutando Gianni Menichelli che andava a schiantarsi nella buca di Biandrate. Erano i giorni del vino, delle rose, erano momenti dove certo non restavi a casa da una finale di Eurolega, erano le notti delle verità rivelate come sa raccogliere, adesso, soltanto Walter Fuochi, soprattutto quando incontra Ettore Messina che dalla Spagna ci dice come siamo davvero caduti in basso, come è cambiata male la “sua Bologna”. Si litigava e ci si abbracciava. Quella notte fu diversa da tutte le altre e il mattino dopo, un primo maggio da vivere all’inferno, la telefonata di uno dei Viberti per farci sapere che Gianni era andato altrove, era andato a discutere di vino, di bellezza, di umanità con angeli neri, lasciandoci gli occhi tristi della sua gatta che chiamavamo Zoff perché parava davvero tutto e si divertiva agitando la coda come una vera etoile del ballo classico. Commemorare in ritardo il nostro caro Gianni perché abbiamo passato settimane in totale depressione aspettando notizie dagli ospedali di Rovereto ed Arco sulle condizioni di Franco Grigoletti che al Menichelli impegnato a proporre frittate coi ranuncoli offriva trote meravigliose. Si volevano bene perché avrebbero fatto l’alba ogni giorno della loro vita, in viaggio, ma anche a fine turno nel giornale. Si amavano e si insultavano, soprattutto quando si giocava a scopa e devo confessare che per me il Gianni era la meraviglia dei pazienti, benedetto perché sapeva che né il sottoscritto, un asino patentato con le carte, né Claudio Pea, molto più bravo, preparato, avrebbero retto l’urlo del maestro a quella tavola. Pea sopportava l’asino, così come faceva un tempo Silvio Trevisani che arrivò quasi al cuore della coppia regina guidata dal Grigo su un pullman di ritorno dalla cena piemontese organizzata proprio da Menichelli e sponsorizzata da Roberto Allievi che esagerò nel bere, come tutti, ma si salvò, come tutti, per la stella che ancora ci portava fortuna. Adesso non è più così. Siamo in via d’estinzione e ha fatto bene Luca Foresti a ricordarci, attraverso un pezzo di Gian Paolo Ormezzano, quel giorno, quella notte, quel lutto mai elaborato.
Una strada anfosa, direbbero i cantautori, per arrivare a Barcellona, al Montjuich dove il Maccabi ha vissuto la sua finale con ardore, ma senza arrivare fino in fondo perché, come dicevano in quel film, bisogna avere altri agganci con chi comanda. Lo pensano anche a Siena scoprendo che hanno dovuto usare, più o meno, le stesse parole che i loro avversari italiani sprecano quando vanno a sbattere sul muro della difesa Montepaschi che nel nostro campionato non vede mai Stonerook o Lavrinovic in debito di falli già al secondo quarto come è avvenuto al San Jordi. Pensi bene, pensi male, pensi al grande arbitro greco Rigas che dirige il settore, pensi che è greco, pensi che ha scelto gli arbitri da una carezza e una pistola: fischi subito, carichi quando gli altri sono ancora scarichi e finisce in gloria per chi vuoi tu. Metodo antico collaudato da maestri del sistema come avrebbe detto il greco Dimou, uno che faceva piangere o ridere come voleva il copione lassù dove si puote. Tutti bravissimi, questi arbitri del sistema Fiba imitato, purtroppo, dal mondo Uleb dove, lo abbiamo scoperto valutando certi colpi bassi, certe credenziali negate, non mancano gli ominicchi, gente che arriva sempre dove vuole secondo la legge Stewart.
Se possiamo fare una confessione vi diremo che tifavamo per tutti meno che per Zelimir Obradovic, il drago, il più bravo, lo spietato, come lo chiamava Giorgio Buzzavo nei giorni in costruiva una bella e grande Benetton, l’uomo nero come lo descriveva Nebojsa Popovic, padre del grande basket jugoslavo dove è stato giocatore, allenatore, massimo dirigente, giornalista di grande qualità che, nelle pause della battaglia politica ai tempi di Tito e poi nei giorni del dolore e della follia, della svalutazione di ogni cosa, scriveva pure per la Gazzetta dello Sport. Obradovic che aveva cento occhi, come il vero drago, che aveva tante orecchie e “ spioni”, sapeva che Nebojsa non era fra i suoi massimi estimatori, soprattutto dal giorno in cui finì in carcere per aver ucciso un passante mentre guidava e non poteva farlo. Dopo quella vita in cella l’uomo cambiò, ma rimase lo spietato dottor Faust che ha vinto proprio tutto nel vecchio Contintente anche se non gli perdoneremo mai di aver buttato fuori dalla palestra Nebojsa per vendetta. Una cosa meschina, una cosa che aveva fatto, ma non per vendetta, soltanto per affermare il suo potere, anche Ettore Messina con questo povero scrivente, mandando uno scherano da quattro soldi sull’ultimo anello del palazzo di Modena dove Tancredi guidava i primi allenamenti della nazionale che Torquemada Porelli gli aveva affidato senza, però, garantirgli il potere assoluto che venne dopo lo splash europeo in Germania.
Abbiamo vissuto le finali ascoltando la sora Cesira, musica con parole appropriate al momento tragico del scilipotismo, ma anche quel detto veneto dove si consiglia ai più giovani, ma anche ai vecchi bavosi come noi, di tacere prima di parlare. Se aveste avuto la pazienza di serdervi a bere Lambrusco sul divano della casa battuta dal vento ne avreste sentite di ogni colore, persino sul Pianigiani andato in confusione nel momento in cui la sua bella Siena doveva scegliere il generale in campo. Tre giocatori bravi da ruotare non sono la cosa più facile. Meglio avere un McCalebb sano e uno Zizis che sa cosa deve fare come rimpiazzo, meglio pensare ad altri ruoli per Jaric che può fare tutto, non come Diamantidis, il più bravo, il più modesto, il più intelligente come diceva Malone di Stockton, come potrebbe dire Batiste che lo interpreta a meraviglia sulla montagna dei pick and roll.
Abbiamo bocciato e promosso venendo smentiti nel giro di due azioni, centrando soltanto un giudizio definitivo: il Real Madrid ha tanti bei prospetti, ma troppi giocatori col piumino ed è appena logico che non abbiano retto il sistema Messina, ed è normale che abbiano risposto soltanto in parte alle sollecitazioni di un uomo pacato e leale come Lele Molin.
Anche sul rendimento dei giocatori lituani nelle partite importanti non siamo andati tanto lontano dalla verità come dicevamo già alle Olimpiadi di Atene, come si può vedere leggendo gli albi d’oro e chi si stupisce di vedere il Pana al titolo pur avendo perso le “stelle”, cominciando da Jasikevicius lo possono dire soltanto i giovanotti della sacrestia dove il merlo maschio resta sempre il primo nemico del Peterson buonista, del mondo al di fuori di una bella statistica.
Anche nella finale andavamo dietro all’umore: Sato? Era tutta un’altra cosa a Siena. Poi ha messo i colpi vincenti, ha lottato in difesa, ha dominato come faceva con il sistema mensanino. L’ultimo a smentirci è stato Eliyahu, ma bisogna dire che sembrava davvero

un pesce d’acqua dolce in un mare pieno di squali. Ci abbiamo preso sulle qualità di Lamonica, nella speranza, però, che adesso non si dica che tutto funziona fra gli arbitri italiani.
Lo si vede nel Far West di questo finale: in A2 sono fioccate multe, sono volate sberle, ci sono state mini invasioni e le casse federali si sono arricchite. Non ci sono consensi per gli arbitri delle 4 partite giocate da Taranto e Schio nella finale femminile e sarà così pure per la quinta, come sarà per i playoff che daranno il quinto scudetto al Montepaschi. Prepariamoci e ricordiamoci di Barcellona, del dopopartita, del dopo finale, di quelle giornate che poteva vivere gloriosamente Torino e che hanno dato vita ad una fiesta mobile catalana anche senza il Barcellona. Qualcuno lo farà sapere al genio che rinuncio alla finali perché aveva il dubbio di non incassare? Purtroppo quello che lo avrebbe fatto di sicuro ci ha lasciato 25 anni fa.
Oscar Eleni

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