Sulle tracce del Most Dominant Ever

17 Marzo 2006 di Daniele Vecchi

Wilt Chamberlain è una delle icone più incontrovertibili e leggendarie del basket mondiale. Il centro più dominante di sempre, nonostante negli ultimi anni Shaquille O’Neal si sia autodefinito lui il Most Dominant Ever. Due ere diverse, due stili diversi, due approcci al basket diversi, ma soprattutto due giochi diversi, la Nba degli anni Sessanta e Settanta, quella in cui Chamberlain dominava, e quella dei giorni nostri. Nessuno può giudicare (nemmeno tu) chi sia stato il più dominante di sempre, resta il fatto che Wilt Chamberlain ha segnato il gioco come forse nessuno ha fatto mai, neanche lo stesso Michael Jordan. Chamberlain era un nativo di Philadelphia, e nella Città dell’Amore Fraterno io vado sempre molto volentieri (circa 150 chilometri da New York, quindi facilmente raggiungibile). “Perchè non fare un salto a vedere dove è cresciuto Chamberlain?”, mi sono chiesto un giorno, svegliandomi nel mio letto di Bank Street, nella parte più a est di Philadelphia, quasi sul fiume Delaware. Mi sono risposto affermativamente, e dopo aver scrutato dove si trovava la mitica Overbrook High School, a West Philadelphia, decido di andare.
Blue Line della Septa (trasporti municipalizzati philadelphiani) da East Market in direzione ovest, cambio sulla 33th Street e Trolley Line numero 110, una sorta di tranvai sulle rotaie, non underground ma in mezzo al traffico. La Overbrook High School si trova sulla 59th Street, all’incrocio con Lancaster Avenue, esattamente nel mezzo di uno dei più brutti ghetti della west side di Philadelphia. Appena salito sulla Trolley chiedo all’autista se mi può indicare la fermata della Overbrook e lui, un corpulento signore afro-americano sulla cinquantina, mi chiede se sono sicuro di voler andare proprio lì. Alla mia risposta affermativa non dice niente. Dopo trenta secondi, guardando fuori dal finestrino appena imboccata Lancaster Avenue, circa all’altezza della 35th Street, capisco (e già comunque sapevo) cosa lasciava perplesso l’autista. Da quel punto in poi, il ghetto si fa sempre più ghetto, e più precisamente si fa sempre più ghetto nero. Sono l’unico bianco sulla trolley, e sono l’unico bianco nel quartiere. Non mi devo fare troppo influenzare dalle apparenze. In fondo vivo ad Harlem, il ghetto nero per eccellenza, quindi non ho nulla di cui essere intimorito. I numeri delle strade salgono lungo Lancaster Avenue, 40th, 44th, 48th, tra circa dieci minuti dovrei trovarmi di fronte alla Overbrook High School. Alla 53th Street però, l’imprevisto. La trolley svolta a sinistra su Lansdowne Avenue, non è più su Lancaster Avenue. Devo fare della strada a piedi. Nel ghetto nero. Dopo qualche minuto arriviamo sulla 59th Street. La Overbrook è “sempre dritto”, come mi dice l’autista, pochi millesimi di secondo prima di dirmi “be careful”, stai attento. Non c’era bisogno del suo consiglio.
Scendo. Imbocco la 59th Street, saranno circa 500 metri a piedi, su una strada deserta, leggermente in salita, costeggiata da fatiscenti case quasi in rovina, e da montagne di spazzatura di ogni tipo. Non c’è nessuno. Mi incammino. Vedo distintamente la fine della strada, il Tustin, il parchetto di fronte alla Overbrook, ma sono ancora lontano. Tra me e la mia meta ci sono loro. Otto o nove, sul marciapiede. Mi vedono immediatamente, alla distanza di circa duecento metri. Mi indicano. Parlottano tra loro. Io continuo a camminare. Passo scattoso, non rallento, non cambio lato del marciapiede, non cambio strada, non svolto per Hunter Street, non torno indietro. Ormai mi hanno visto, se cambiassi la mia rotta dopo averli visti, per loro questo significherebbe due cose: 1) che ho paura di loro, e quindi li autorizzerebbe a rincorrermi per dare una lezione allo sfigato che accidentalmente si è trovato nella zona sbagliata al momento sbagliato; 2) che non dovrei essere lì, e che quindi non sono autorizzato ad essere nel loro quartiere, potrei essere uno sbirro, una persona non gradita, o addirittura uno sconfinante, quindi con la licenza di essere punito per la mia clandestinità. Nella giungla forse i leoni e le tigri hanno regole più elastiche? Vado avanti, i miei sensi sono attivati al massimo del loro regime, cammino deciso, ormai sono a meno di sessanta metri. Guardo dritto davanti a me, guardo per terra e guardo in fondo alla strada, non dò segno di rallentamento o di indecisione. La loro postura di gruppo dice che stanno aspettando il mio passaggio, sembrano addirittura curiosi. Il cuore batte forte. Quando sono circa a trenta metri si aprono in due tronconi, mi lasciano un corridoio nel marciapiede dove passare in mezzo a loro, quelli spostati sul bordo della strada mi fanno segno, come vigili urbani, di transitare all’interno del corridoio che hanno creato per me. Sono quasi certo di essere picchiato.
Sono a sei-sette metri da loro, non rallento e non accelero, mi dirigo nel corridoio, mi aspetto di essere colpito entro due o tre secondi. Sono dentro al corridoio. Mi sono ai lati. Uno alla mia sinistra mi dice: “just stop”. Fermati. Mi fermo. Sono in mezzo a loro. Mi guardano, cercano di capire chi sia. Ostento tranquillità. Mi batte fortissimo il cuore. Ho la faccia relativamente distesa, lo sguardo fermo, non polemico ma deciso. Guardo colui che mi sembra abbia detto la frase. Lo guardo non interrogativamente, non lo guardo per chiedergli se posso finalmente andare, lo guardo per rispetto, perchè in fondo io sono nel suo territorio, e devo avere il coraggio di guardarlo negli occhi senza provocarlo (anche nella giungla è così? Ma dai….). Lo guardo ma in realtà non lo vedo. Vedo una faccia di un giovane afro-americano come se ne vedono miliardi. Dopo tre interminabili secondi le sue parole, facendo una specie di passetto indietro: “go ahead”. Vai. Senza ringraziare o salutare vado, i primi passi sono per inerzia, ancora con la sensazione quasi certa di sentire arrivare colpi alle spalle. I colpi non arrivano. Sono lontano ormai più di cinquanta metri, e la tensione comincia a scendere. Senza accorgermene sono di fronte alla Overbrook High School, faccio meccanicamente un paio di foto, giusto per essere arrivato fino lì con tutti gli annessi e connessi. Ho deciso, torno a piedi lungo Lancaster Avenue fino alla 53th Street (ultima fermata della Trolley sulla Lancaster prima di girare), è molto più lunga ma non posso sfidare la sorte due volte. Ora sono sicuro che Chamberlain è il Most Dominant Ever.

Daniele Vecchi

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