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In the box

Sindrome tedesca

di Stefano Olivari

Pubblicato il 2007-07-04

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1. Pare che inglesi abbiano una sorta di sindrome da 1966. Infatti, da quel Mondiale vinto in casa contro la Germania Ovest grazie a un gol/non gol nei tempi supplementari, i Leoni non hanno combinato più nulla a livello di Nazionale: bei tornei, a volte, ma trofei alzati niente di niente. Proprio da qui parte David Winner, giornalista free lance e brillante scrittore che divide la sua vita fra Roma e Londra. Nel suo libro “Those Feet, a sensual history of english football”, pubblicato dalla famosa casa editrice Bloomsbury, l’autore (che già gli appassionati di letteratura sportiva britannica conoscono grazie al suo precedente lavoro “Brilliant Orange”, dove la storia del calcio olandese viene rivisitata in maniera intelligente e divertente) parte proprio dal 1966 e si chiede perchè la Nazionale dei Tre Leoni sia andata incontro solo a delusioni e umiliazioni in (praticamente) tutte le competizioni internazionali affrontate dopo quel magico anno.
Winner all’inizio del libro si chiede perchè gli olandesi (ormai è chiaro che gli piacciono) sono storicamente “belli e perdenti” mentre gli inglesi sono ugualmente perdenti (ad alto livello, ovvio) ma generalmente anche brutti a vedersi. Nel farlo l’autore parte veramente da lontano, addirittura da dove il calcio moderno è nato, all’interno di quelle scuole vittoriane dove la disciplina regnava e la pudicità dei costumi era considerata un valore primario. David rivisita anche quelle che sono state le “tragedie sportive” inglesi, dalla debacle contro gli statunitensi a Belo Horizonte nel 1950, alla sconfitta di Wembley con l’Ungheria il 25 novembre 1953 – quando i britannici vennero battuti per 6 a 3 dai magiari in quella che viene considerata a torto la prima sconfitta della nazionale inglese sul suolo britannico contro un avversario straniero al di fuori del Regno Unito (l’Eire vinse a Wembley nel 1950 e non ci risulta che facesse parte neanche allora dell’Impero di Sua Maestà) – fino alle sconfitte contro gli acerrimi nemici tedeschi dopo il trionfo del 1966. Non tanto per la partita dei quarti di finale di Mexico ’70, dove i teutonici seppero risalire da un passivo di due gol vincendo alla fine 3 a 2, ma anche e soprattutto per la sconfitta a Wembley con la Germania Ovest per 3 a 1 nel 1972, durante un turno di qualificazione agli Europei. In quel frangente i tedeschi diedero una lezione agli inglesi e li costrinsero all’impotenza nel match di ritorno a Berlino quando, nonostante i proclami del selezionatore Alf Ramsey di andare a ribaltare il risultato in Germania, la partita finì con un anonimo 0 a 0, consentendo così ai bianchi di Schoen di andare avanti e arrivare poi al trionfo continentale dell’estate 1972.
Da lì iniziò l’inferiority complex nei confronti dei tedeschi, evidenziato dalla sconfitta ai rigori a Torino nella semifinale di Italia ’90, passando poi per la sconfitta sempre dal dischetto a Londra nell’Euro ’96, fino ad arrivare al gol di Dieter Hamann che chiuse Wembley il 7 ottobre del 2000. Un’inferiorità psicologica che qualche anno fa fece dire a Gary Lineker che “Il calcio è quello sport che si gioca in undici contro undici su un campo verde e dove poi alla fine vincono sempre i tedeschi”. Molto interessante anche il capitolo dedicato ai rapporti stretti, in ambito calcistico, fra italiani e inglesi e intitolato “The Italian Job”, come il recente libro di Gianluca Vialli e Gabriele Marcotti. Winner parte proprio dal famoso – più in Gran Bretagna che qui da noi, a dir la verità – film con Michael Caine del 1969, per descrivere alcune caratteristiche che lui ha notato negli italiani. Ancora più interessante la lettura che l’autore da della celebre partita Inghilterra-Italia disputata a Londra nel novembre del 1934. Da noi quel match verrà sempre ricordato come quello dei “Leoni di Highbury”, dove la Nazionale italiana, qualche mese prima fregiatasi del titolo iridato, disputa una partita tutto cuore pur uscendo battuta per 3 a 2. Nel libro vediamo che oltremanica lo stesso incontro viene letto diversamente, con gli italiani a picchiare come fabbri e con il capitano inglese Eddie Hapgood che si ritrovò con il naso rotto (per par condicio diciamo che gli azzurri ebbero Monti messo ko dopo pochi minuti). In definitiva il libro di Winner ci fa entrare in pieno nello spirito inglese, nel modo in cui i britannici approcciano gli sport e sul perchè, beh, a volte sono così brutti a vedersi. Peccato che il libro sia reperibile solo in inglese e non sia ancora stata pensata una versione italiana: in ogni caso lo consigliamo. Anche se ci vengono in mente tipi di calcio più brutti di quello inglese…

Luca Ferrato
ferratoluca@hotmail.com

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