Radivoj Korac e l’ultima serata con Tanjevic

1 Giugno 2016 di Oscar Eleni

Oscar Eleni dai giardini della memoria dove ci ha portato Boscia Tanjevic, il poeta del basket vissuto in prima linea e, come dice Wikipedia, allenatore di pallacanestro italo-montenegrino che il 25 giugno nella Cappella Farnese di Bologna, in piazza Maggiore, entrerà nella casa della gloria del basket italiano a cui ha dato tanti giocatori, tante cose belle, prima fra tutte la medaglia d’oro agli Europei di Parigi nel 1999, oltre alla meraviglia Caserta, alla splendida Trieste poi diventata campione a Milano.

Giugno, il mese dei tristi ricordi per lui. Vuole sfogarsi con chi conosce e con chi vorrebbe conoscere come il Gigi Riva che sarebbe piaciuto tanto a Grigoletti capo dello sport al Giorno delle meraviglie, perché questo brillante giornalista di Nembro, ex direttore del Giornale di Vicenza, caporedattore centrale all’Espresso che ha lavorato per il Giorno e la Repubblica delle donne, lo ha folgorato con il libro scritto in Francia e poi pubblicato quest’anno per Sellerio, appunto L’ultimo rigore di Faruk, una storia di calcio e di guerra, il tiro fatale sbagliato a Firenze da Faruk Hadzibegic contro l’Argentina di Maradona, ai Mondiali del 1990. In quei calci di rigore, secondo Riva, si è consumata quella che sarà l’ultima Jugoslavia alla fase finale di una competizione mondiale. Coda sublime ai suoi libri sulla ex Jugoslavia, quella del Nuovo Medioevo scritto nel 1992 con Ventura, o di L’ONU è morta a Sarajevo, la città dei sogni e dei tormenti di Boscia che nel 1979, allenatore da quando aveva 24 anni, vinse la coppa dei campioni contro Varese baciando il suo artista Mirza Delibasic. Lui vorrebbe premiarlo di persona per la sceneggiatura di Nema problema, la frase dei grandi maestri plavi.

Ma torniamo al Tanjevic con voce roca che vuole ricordare la morte di Radivoj Korac, uno dei più grandi giocatori di basket europei di sempre, schiantatosi con un vecchio Maggiolino il 2 giugno 1969 sulla strada che da Sarajevo doveva riportarlo a Belgrado perché l’avventura a Padova era finita. La notte dei misteri, del dolore, del destino. Vuole raccontarlo questo grande uomo che ha saputo sussurrare a tanti cavalli di razza del basket, speciale proprio per questo anche se molti suoi colleghi invidiosi non lo hanno mai capito e, magari, anche sofferto se scoprivano di non essere amabili come lo è stato lui in una professione imparata nella scuola più affascinante di questa vecchia Europa che ancora fatica a capire e in Italia c’è addirittura chi insiste a considerare la nostra come scuola tecnica d’avanguardia. Balle. Dunque eccoci al telefono col Boscia che adesso scherza con le sue neoplasie perché gli sembra che dieci toscanelli al caffè non facciano poi così male, neppure nel giorno in cui si combatte il tabacco. L’allenatore di quattro nazionali, vicecampione del mondo con la Turchia nel 2010, comincia il suo racconto senza piangere, ma con la morte nel cuore perché su quella macchina avrebbero potuto esserci altri, magari anche lui e la moglie Yesna nazionale della squadra femminile.

“Voglio ricordare a 47 anni dalla sua scomparsa un grande giocatore, un grande uomo, perché il biondino, come lo chiamavamo noi, il nostro caro Korac, era un vero intellettuale e non uno scemo che palleggiava e tirava, accidenti se tirava bene, come molti di oggi.

Dovevamo vederci per una delle ultime feste del basket a Sarajevo. Lui doveva premiare i migliori allievi, nel progetto scuola e sport di quella che era la nostra Patria prima che la sfasciassero i signori della guerra. Noi arrivavamo da Belgrado. Lui, che non amava gli aerei, in macchina, sul Maggiolone, da Padova dove giocò per quella squadra che con Moe era stata il capolavoro del professor Aza Nikolic. Era felice, era Radivoj, ne fece 33 anche in quella partita. Ma era uno che segnava tanto, ne avrebbe fatti più dei 100 di Chamberlain se dopo i 99 a Stoccolma, Coppa campioni ’64-’65, non ricordando l’impresa del grande centro americano due anni prima, non lo avessero messo in panchina.

Festa a cui partecipò Creso Cosic, altro grandissimo, anche se era ancora l’uomo degli scherzi a quei tempi, non il grande genio diventato mormone, il più grande fra i centri anche se Radivoj lo chiamava, come tutti, Tendine. Sì, Creso era proprio tendini e ossa, zero muscoli. Partita, cena e poi via verso un bar della periferia dove Cosic arrivò andando a 170 all’ora sulla sua Audi. Baci, abbracci, i soliti scherzi e persino un whisky per Korac che era assolutamente un non bevitore, come noi.

Progetti per il giorno della partenza la mattina seguente. Io e mia moglie volevamo un passaggio, ma lui lo aveva promesso ai tre ragazzi studenti che dovevano tornare presto a Belgrado che potevano contare su di lui. Finì tutto molto tardi. Quando il giorno dopo lui capì che i giovanotti erano saliti su treno a cuccette della notte, non si ricordò di chiamarci nella camera all’hotel Central. Partì da solo. Fu lo schianto e per riconoscerlo fra i rottami arrivò Ranko Zeravica, il suo primo grande maestro che abbiamo salutato da poco. Uno che, come lui, mi chiamava il turco anche se non fumavo poi così tanto. Destino. Dolore. Ma Korac è sempre con noi e ogni 2 giugno brindo alla sua memoria”.

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