Preferiamo un defensive end

19 Dicembre 2007 di Roberto Gotta

1. La scorsa settimana, forse quindici giorni fa, si era parlato qui di una teoria che prende progressiva consistenza, ovvero che sia relativamente facile trovare – e parliamo di un ruolo esaltante da vedere – un running back adatto, una volta che superi una certa soglia di talento, resistenza, atletismo, mentre molto meno agevole è dotarsi di giocatori di alto livello in altri ruoli. Chi è più bravo di noi ha notato che gli ultimi sei Super Bowl sono stati vinti da squadre che non avevano un running back scelto tra i primi 24 del draft, e che sette delle ultime otto avevano almeno un uomo di linea difensiva di quelli che fanno la differenza. Viene ora immediato pensare al draft dell’aprile 2006, quando una nuvola di pernacchie accolse la decisione degli Houston Texans, detentori della scelta numero 1, di chiamare un defensive end che nemmeno aveva illuminato la scena NCAA, Mario Williams di North Carolina State, preferendolo a Reggie Bush, il superbo running back di Southern California, e a Vince Young, quarterback di Texas, che se l’era pure presa perché Houston è la sua città. Passate due stagioni quasi intere, è evidente che finora – sottolineato e ripetuto: finora – la scelta dei Texans è stata vincente. La squadra allenata da Gary Kubiak non farà i playoff neanche quest’anno, ma dopo il 31-14 ai Broncos di giovedì scorso il suo bilancio è salito a 7-7 ed i progressi paiono vistosi, anche se vanno fatti ulteriori ritocchi perché chiunque giochi in una division che comprende Indianapolis e Jacksonville (e ci sarebbe anche Tennessee) deve preoccuparsi di essere alla pari con le altre rivali di division prima ancora di pensare alla conference o ai playoff. E’ stato anche nella prospettiva di sfidare ancora per qualche tempo una squadra che ha Peyton Manning che Houston decise di preferire Williams a Bush: una decisione che ora, come detto, pare premiare i texani.
2. Dopo una stagione di debutto in cui ha avuto anche problemi di fascite plantare, che è dolorosa e debilitante, ora Williams è uno dei migliori defensive end della NFL, ovvero uno di quei difensori di linea che partono all’estremità della linea stessa. Compito principale: arrivare al quarterback, mettergli pressione, atterrarlo o comunque disturbare i suoi lanci. Finora Williams ha 13 sack, cioé atterramenti del qb in possesso di palla, e in questa classifica viene dopo il solo Patrick Kerney dei Seattle Seahawks. Ma non sono le sole statistiche a dare la misura del suo valore: con il suo atletismo, le sue braccia lunghe – utili a tenere distante l’uomo di linea offensiva – e la sua energia, Williams è diventato uno di quei giocatori di cui un attacco avversario deve preoccuparsi nel momento in cui viene preparato il piano-partita, durante la settimana. Non vogliamo esagerare: visto all’opera (qui ringraziamo Alessandro Santini), non è che esca dallo schermo o spacchi in due l’avversario diretto ad ogni azione, ma si fa notare chiaramente per l’agilità con cui parte verso il Qb, con cui, se l’azione va dalla parte opposta, la insegue arrivando a volte al placcaggio a venti metri da dov’era partito, e anche per la capacità di fare contenimento, cioé, se si tratta di corsa e non di lancio, di fare in modo che il running back non passi impunito dalle sue parti. E’ anche questo che aveva un pochino ingannato alcuni osservatori al college (North Carolina State): lo staff tecnico dei Wolfpack gli chiedeva prima di tutto di preoccuparsi delle corse o di giochi a sorpresa come la reverse, e solo un volta verificato che non ci fosse quel tipo di pericolo di pensare al Qb, per cui qualcuno aveva avuto l’impressione che Mario non fosse particolarmente infuocato nel gettarsi sul quarterback. Williams ha misure ottimali per un defensive end: alto 1.92, pesa circa 130 chili, ha forza fisica nelle braccia, stacco verticale e quando corre… corre bene, piegando le ginocchia, non trascinando la gamba in maniera un po’ precaria come si vede fare a volte a uomini di linea di agilità molto inferiore alla sua.
3. Viene in genere utilizzato nella cruciale parte destra della linea a 4 dei Texans – che, prendendolo, avevano proprio sottolineato come ci fosse bisogno di uno come lui nel passaggio dalla linea a 3 precedentemente utilizzata – ma ovviamente si sposta quando la situazione lo richiede: nel senso che sa fronteggiare un tackle come un tight end, e nelle ultime settimane il defensive coordinator Richard Smith e l’allenatore della linea, Jethro Franklin, hanno cominciato ad utilizzarlo di più con partenza… in piedi, non nella posizione a tre punti (ovvero tre parti del corpo, cioé le due punte dei piedi e la mano di appoggio) classica di ogni uomo di linea. Giovedì, dopo l’ultimo dei suoi sack su Jay Cutler di Denver, Williams ha festeggiato mimando una danza hawaiiana: ovvero, segnalava ai votanti il proprio desiderio di essere scelto per il Pro Bowl. Non ce l’ha fatta – ci è andato, come middle linebacker titolare della AFC, il compagno di squadra e di draft DeMeco Ryans – ma ci proverà l’anno prossimo, dopo avere magari ribadito, come già quest’anno, che la qualificazione ai playoff gli interessa più di una convocazione al Pro Bowl (non che una delle due eventualità escluda l’altra…). Per il resto magari si potrà discutere, sul piano del buon gusto, del fatto che con i soldi del contratto (54 milioni di dollari) si sia comprato un numero imprecisato di auto tra cui una Lamborghini Murcielago scoperta con cui ogni tanto lo si vede girare a Houston, o che abbia commesso la pacchianata di lanciare dalla balconata di una discoteca banconote sulla gente che ballava di sotto. Lo chiamano “far piovere”, ed è uno dei nuovi, disgustosi modi di mostrare la propria ricchezza, messo in atto anche da PacMan Jones a Las Vegas nella serata in cui per la calca si scatenò una rissa con sparatoria. Ecco, meglio pensare solo a come Williams gioca. Molto meglio.
4. Sinceramente: il football giocato sotto la neve è football purissimo, vero, genuino. Forse non è stato concepito per condizioni atmosferiche così, questo sport, ma pazienza. Per esperienza personale possiamo dire che gli scontri con le membra gelate fanno un male boia, e spesso coprirsi non vuol dire tanto temere il freddo quanto impedire che nei contatti la pelle punga; in più c’è ovviamente la difficoltà di afferrare la palla se non viene cambiata spesso, come avviene nella NFL ma non certo nei campionati europei. A volte però il buonsenso dovrebbe prevalere su atteggiamenti da macho che rendono certi personaggi più macchiette che uomini: in un lontano passato, diciamo oltre vent’anni fa, una squadra (italiana) si era accordata con un’altra, situata non molto distante, per giocare un’amichevole precampionato. Nevicò forte, il giorno prima, ed il campo era coperto di neve: trattandosi del campetto di un paesino, nessuno ovviamente si era preoccupato di liberarlo o anche solo spalare via un po’ di neve, per cui la praticabilità era al limite. Nel senso che realmente il piede affondava nella neve ben oltre metà scarpa, quasi al livello della caviglia. La perplessità di molti giocatori – che senso aveva provare gli schemi, ovvero unico scopo delle amichevoli, in condizioni in cui riuscivi a malapena a stare in piedi? – furono purtroppo concretizzate in una partita inutile, anzi dannosa; rimasto in pratica incollato ad un tratto di neve spessa con un piede, un giocatore fu travolto dai difensori e subì una frattura della tibia e perone così grave da essere poi costretto a portare una protezione esterna speciale per alcuni mesi, in pratica una gabbia, e quelli che c’erano non dimenticarono presto la macchia di sangue sulla neve nel punto in cui il placcaggio era avvenuto. La morale, se esiste? Già detto sopra: nel football esiste, ed è sempre esistita, una componente di machismo per cui si deve giocare sempre, a qualunque condizione e in qualunque situazione, ed è comprensibile, forse giusto, visto che se non si va con il cuore oltre gli ostacoli in questo sport non si vede in quale lo si debba fare. Ma il buonsenso dovrebbe avere ancora un valore, e in quell’occasione non lo ebbe

. Tornando al meraviglioso spettacolo delle partite NFL sotto la neve, pare che i Cleveland Browns, in previsione di una domenica gelida, avessero deciso di allenarsi all’aperto, un giorno nella settimana precedente, proprio per abituarsi al freddo e alla neve. Non tutti erano contentissimi di farlo, e ad esempio il cornerback Eric Wright, californiano, si è messo addosso così tanti strati di canotte e magliette che non riusciva più ad infilarsi la spalliera…
5. Non pare il momento migliore per parlarne, visto che in metà Stati Uniti fa un freddo boia, ma è noto che una delle grandi bellezze dell’esperienza sportiva di (soprattutto) football è il tailgating. Ovvero, andare nel parcheggio dello stadio ore e ore prima della partita (o anche il giorno prima, se si ha un camper) e passare il pre-gara cucinando al barbecue o alla griglia – le due cose, dal punto di vista gastronomico, sono ben diverse – qualsiasi cosa si desideri. Un giro per il parcheggio è consigliato a chiunque affronti una partita, anche di preseason: se siete da soli è una delizia, se portate qualcuno per la prima volta lo stupirete manco gli faceste scoprire che sotto il Coliseum di Los Angeles c’è un ghiacciaio. Il tailgating – nome che deriva dal fatto che sostanzialmente la procedura consiste nell’aprire il portellone posteriore del pulmino o fuoristrada ed estrarne il materiale per la cottura – è americano come poche altre pratiche: mescola ossessione per il cibo a voglia di stupire, esuberante cortesia (è raro che passiate accanto ad un gruppo di mangioni e non vi venga offerto nulla) a spirito giocherellone. L’esagerazione, anch’essa molto americana, ma di quelle che fanno sorridere più che indignare (come capita invece, perlomeno a noi, vedendo interi negozi dedicati a bambole e alle loro padrone, come American Girl), sta in tutto quello che è cresciuto attorno alla passione del tailgating: griglie, coprigriglie, grembiuli, attrezzi con il marchio delle squadre, televisori e piccole antenne satellitari per vedere il prepartita e anche la partita stessa (per chi voglia solo fare tailgating ma non abbia il biglietto), libri di ricette create appositamente, ora una spettacolare, esagerata jeep pick-up della Ford che viene regalata ai vincitori di un concorso. Cos’ha di speciale (e peraltro non inedito, perché cose del genere se n’erano già viste)? Semplice: nel cassone posteriore, che può ovviamente essere coperto, ci sono una griglia già montata e cinque schermi tv al plasma, orientabili così da consentire la visione a chiunque sia intorno al camioncino. Senza parole.
6. Ultima cosa. E’ uscito il rapporto Mitchell sul doping nel baseball, che ha scoperchiato alcune pentole peraltro già mezze esposte, e svelato un numero molto alto di giocatori che avrebbero assunto sostanze proibite. Nonostante i test, nel football il sospetto che qualcuno brighi nell’oscurità c’è sempre stato. E allora, da appassionati ed amanti di questo sport, ci auguriamo che la NFL, anche dietro le quinte, senza proclami – che però fanno molto pubbliche relazioni – faccia sforzi ancora maggiori per rimediare al problema, casomai ci fosse. E’ per il bene di tutti, ovviamente.

Roberto Gotta
http://vecchio23.blogspot.com

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