Non perché abbiamo vinto

28 Settembre 2007 di Stefano Olivari

Gli ottanta anni di Enzo Bearzot hanno offerto il pretesto per iniziative buone, come l’incontro a sorpresa in Gazzetta con i suoi ragazzi dell’Ottantadue, ed altre meno buone come la riproposizione di editoriali del genere ‘Altri tempi, altri uomini’, come se i valori etico-sportivi di Antognoni e Cabrini fossero, a prescindere da valutazioni sulle singole persone, superiori a quelli di Totti e Grosso. Ma da cosa nasce, nell’immaginario collettivo, la superiorità del 1982 rispetto al 2006, almeno per quanto riguarda il nostro orticello? La prima ragione, che supera e al tempo stesso comprende tutte le altre, è che eravamo tutti più giovani e che il calcio aveva quindi un valore diverso: su un quindicenne di adesso l’effetto Germania è stato uguale a quello del quindicenne 1982. Mettete Katy Saunders al posto di Sophie Marceau e Scamarcio al posto di Pierre Cosso, a parità di età dello spettatore l’effetto non cambia.
La seconda ragione risiede nell’importanza relativa della Coppa del Mondo: in un calcio quasi in tutto il mondo semi-autarchico (venivano definite ‘multinazionali’ squadre come l’Anderlecht con due stranieri o quelle inglesi a causa di scozzesi e gallesi), le occasioni di confronto internazionale fra grandi club erano ridottissime anche a livello di amichevole. Distribuite le squadre in tre coppe europee, strutturate tutte ad eliminazione diretta, poteva capitare che grandi campioni durante tutta la loro carriera nemmeno si sfiorassero. Una situazione assurda e negativa, a dispetto della nostalgia di stampo subbuteale sempre in agguato. Insomma, la Coppa era forse l’unico vero momento in cui tutto il mondo guardava davvero la stessa cosa: per il novanta per cento del pianeta è così anche oggi, ma nel 2007 almeno l’appassionato europeo ha mille possibilità in più di vedere i suoi giocatori preferiti sfidarsi fra di loro.
La terza ragione, rapportando come al solito tutto all’Italia, è che il nostro calcio veniva da quasi un decennio di batoste internazionali a livello di club, fatta eccezione per qualche fiammata della Juventus (la Coppa Uefa 1976-77 rimane una delle più grandi imprese del calcio italiano moderno), con la Nazionale che aveva quindi assunto un ruolo di vendicatore delle umiliazioni subite dappertutto. Umiliazioni figlie anche di un doping a due velocità (le famose ‘squadre dell’Est forti fisicamente’, per non parlare dello ‘spirito delle squadre britanniche’) e di un atteggiamento catenacciaro a livelli imbarazzanti anche in squadre italiane piene di talento.
La quarta ragione è che il pessimismo della vigilia nel 1982 non aveva solo una base ambientale, come nel 2006 (Calciopoli, scommesse, eccetera), ma una solidissima base tecnica. Solidissima almeno secondo i commentatori che facevano opinione, secondo la regola che meno si conoscono gli avversari più questi avversari fanno paura. E’ difficile sostenere, con gli occhi di oggi che quel Brasile fosse invincibile: grande centrocampo (Socrates, Falcao, Cerezo che cambiavano di posizione continuamente, più Zico a suggerire), ma resto della squadra inferiore al Brasile dei giorni nostri, soprattutto in difesa, alla Francia incontrata nella finale 2006 o alla stessa Germania Ovest, per quanto reduce da Siviglia, della finale del Bernabeu. Quello del 1982 fu un grande Mondiale, per tanti motivi: la prima volta con 24 partecipanti, le squadre fortemente caratterizzate sia dal punto di vista tattico che da quello dei personaggi, l’organizzazione perfetta ma al tempo stesso umana, quasi tutti i fuoriclasse presenti che si trovavano all’apice della carriera (solo Keegan aveva già dato). Sullo sfondo, ma neppure tanto, il pensare positivo tipico degli anni Ottanta. Anni senza mezze misure anche perché di reazione anti-ideologica, anni adorati oppure odiati. Non fu un grande Mondiale perché l’abbiamo vinto noi, ma ognuno è affezionato ai po-po-po della propria adolescenza.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

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