Louisiana State con l’asterisco

9 Gennaio 2008 di Roberto Gotta

1. Nella notte (italiana) tra il 7 e l’8 gennaio, dunque nemmeno 48 ore prima dell’uscita di questa rubrica, si è giocato al Superdome di New Orleans il BCS Championship Game, in parole incomplete la finale del football universitario. Già si era detto delle perplessità che aveva suscitato la scelta, seppur obbligata, delle due sfidanti: Louisiana State aveva perso ben due partite durante la stagione, anche se entrambe dopo triplo tempo supplementare, Ohio State aveva una sola sconfitta ma al Rose Bowl (stravinto poi da Southern California) era andata Illinois perché ovviamente i Buckeyes erano già chiamati al BCS Championship Game. Il clima che ha anticipato la finale era quello, secondo molti commentatori che abbiamo letto, di ovvia attesa, dato che si tratta di due squadre con un seguito di tifosi mostruoso (e nel caso di LSU anche finitimo, visto che da Baton Rouge a New Orleans sono 45 minuti di auto e i fans di LSU sono comunque numerosissimi in ogni parte dello Stato), ma anche di un certo distacco da parte degli appassionati neutrali, e addirittura di ostilità da parte di quelli che ritenevano defraudate le proprie squadre (Georgia, tra tutte) e consideravano meritevole di asterisco dequalificante l’eventuale squadra campione. Che è stata alla fine LSU, vincitrice 38-24 (e dunque campione NCAA) dopo essere immediatamente andata in svantaggio 10-0. I Tigers sono una grande squadra, con un defensive tackle di livello superiore come Glenn Dorsey ed altri giocatori di prima categoria, non solo rapidi ed atletici – dote essenziale nella Southeastern Conference – ma potenti. Nella media, Ohio State ha giocatori più lenti e pesanti, più adatti al tipo di football che tradizionalmente – ma non è oro colato – si gioca nell Big Ten, e a volte la differenza emerge, come in questo caso. La squadra di Les Miles, candidato da tutti (tranne che da se stesso) ad andare a Michigan dov’è stato importante assistente, vale un titolo nazionale, per come ha reagito dallo 0-10 per come si è procurata alcune delle circostanze (intercetti, fumble ricoperti, field goal stoppati) che l’hanno portata alla rimonta con un parziale di 24-0, ma il numero crescente di polemiche suscitato dalle valutazioni sul valore delle squadre partecipanti ai vari bowl, nonostante tabelle computerizzate e graduatorie calcolate su parametri predeterminati, fa sì che anche stavolta venga rispolverata con vigore la proposta di effettuare playoff reali, come del resto fanno in Division II, III e nella ex Division I-AA. Certo, che Michael Adams, presidente di Georgia University, se ne esca con l’ennesimo schema di playoff proprio nel giorno in cui una rivale di conference, appunto Louisiana State che i Bulldogs non hanno affrontato in regular season quest’anno, festeggia il titolo, è un po’ sospetto, ma ci sta: Adams lamenta lo strapotere delle televisioni (dove l’abbiamo già sentita?) che pure sono quelle che danno alla BCS e indirettamente ai college 320 milioni di dollari in quattro anni (e parliamo solo della Fox, mentre ESPN ha cifre ancora maggiori), e propone la formula detta “plus one”, ovvero che le vincitrici dei quattro bowl principali (Orange, Sugar, Rose e Fiesta) si incontrino in due semifinali da cui poi nasceranno le partecipanti al BCS Championship Game, che in quel caso darebbe una squadra campione su basi più credibili e soprattutto più oggettive che non oggi. C’è forte opposizione da parte di alcune conference, ma prima o poi, la proposta passerà. Lo scenario migliore, pur con la preoccupazione di almeno tre settimane di studi disagiati per i giocatori? Una finale NCAA nel weekend vuoto tra finali di conference NFL ed il Super Bowl.
2. A proposito di NFL. Non male, proprio non male alcune delle partite di wild card dello scorso fine settimana. Emotivamente splendida Seattle-Washington, per la commozione di molti Redskins nel ricordare lo scomparso Sean Taylor una volta ottenuto un vantaggio che pareva decisivo, e per il cuore, oltre che alcune esecuzioni offensive di alto livello, che i Seahawks hanno messo nel ribaltare la situazione e dilagare negli ultimi minuti, quando Washington si è sciolta. Ci è piaciuta molto Pittsburgh-Jacksonville, in quel tempo da lupi e cioè da football che ci provoca molta e colpevole goduria (visto che è facile parlare di tempo da football standosene al caldo in salotto) dell’Heinz Field. La solidità fisica e morale mostrata dai Jaguars avrà attratto l’attenzione dello staff dei New England Patriots, che sabato sera ospiteranno Jacksonville: molto difficile, anzi quasi impossibile che i Pats sottovalutino gli avversari, che però per loro rappresentano una novità ovvero una squadra mai incontrata quest’anno, con tutti i dubbi che una situazione del genere può creare. Nei Patriots, perché al di là delle solite dichiarazioni guerresche provenienti dalla Florida è evidente che saranno loro i favoriti, e non di poco. Jacksonville ha difeso molto bene sulle corse degli Steelers, ha una linea difensiva tosta e ruvida, ma non è che finora le difese si siano auto-limitate nel cercare di arrivare a Tom Brady, eppure il geniale Qb di New England le ha aggirate – e raggirate – tutte. Il programma (orari italiani, tutto in diretta su Sky): sabato ore 22.30 Green Bay-Seattle, ore 02.00 New England-Jacksonville; domenica ore 19 Dallas-New York Giants, ore 22.30 Indianapolis-San Diego.
3. Domani, 10 gennaio, saranno 26 anni da una delle partite più note della storia dei playoff NFL. Sì, 26 anni non è un anniversario a cifra tonda, ma non ci sembra un problema fondamentale. La gara in questione è Cincinnati Bengals-San Diego Chargers, finale della AFC e dunque partita che avrebbe promosso la vincente al Super Bowl XVI da disputarsi al Silverdome di Detroit. Che fu il secondo mai trasmesso in Italia, tra l’altro. Ci sembra pure di ricordare che Canale 5 mandò in onda, ovviamente in differita, anche questo Bengals-Chargers, ma non ne siamo sicuri. Cosa ebbe di memorabile quella partita? Semplice: fu giocata con un freddo cane, temperature sorprendenti persino per Cincinnati a metà gennaio e difficilmente tollerabili per un avvenimento sportivo. La temperatura più alta durante le tre ore di competizione fu di -23, ma a causa del vento gelido la cosiddetta temperatura percepita – concetto noto da decenni nel mondo anglosassone ma filtrato al grande pubblico solo da pochi anni in Italia – fu in realtà di -38, quasi difficile da credere. Al limite del nocivo, ben oltre il semplice doloroso, se si pensa alle collisioni in campo. In più uno degli elementi che ancora si ricordano di quello che venne soprannominato Freezer Bowl fu la scelta degli uomini di linea offensiva dei Bengals, padroni di casa, di dare una botta psicologica agli ospiti, che come talento puro erano più forti, scendendo in campo in maniche corte (ma con le braccia spalmate di vaselina): in parte la scelta era dovuta al timore che alcuni dei forti uomini di linea difensiva ospite riuscissero ad aggrapparsi ad eventuali maniche lunghe, ma ci un vistoso elemento di intimidazione, che del resto i Bengals avevano appreso da Mike Webster, centro di Pittsburgh che non si metteva mai alcuna protezione termica. Forrest Gregg, coach di quei Bengals, aveva giocato nel 1967 in quel Packers-Cowboys passato alla storia come Ice Bowl, ma non si era mai sognato di mettersi le maniche corte e vedendo invece che i suoi giocatori lo facevano pensò “siete uomini migliori di me”. Tutti gli altri si coprirono come potevano: ancora lontano a quei tempi l’abbigliamento sportivo specializzato per temperature alte e basse, gli arbitri si infilarono sotto la divisa dei…sacchi per l’immondizia (niente battute, ok?), ritagliando i buchi per le braccia e le gambe, aggiungendo poi paraorecchie, due paia di calze, calzamaglia e parabraccia, solo che uno di loro, Jim Poole, durante una sosta si avvicinò a tal punto ad uno dei fornelli situati a bordo campo che l’estremità della sua manica cominciò a fare fumo, come se stesse prendendo fuoco. Altre curiosità furono la scelta del tight end di Cincinnati, ML Harris, di indossare guanti comuni, di pelle, “di quel

li che uno mette d’inverno quando esce di casa. Ma a me non fregava niente di sapere quanto fosse macho un mio giocatore, se con quelli riusciva a prendere la palla allora a me andava bene” disse qualche anno fa Gregg a Bengals.com. Per i Chargers la giornata fu complicata non solo dalla differenza tra temperatura abituale di San Diego e quella di Cincinnati, ma anche dallo sbalzo rispetto alla partita di playoff della settimana precedente, dove c’erano stati 29 gradi e la solita umidità alta. Molti lanci del grande quarterback Dan Fouts vennero smorzati dal vento, e lo stesso Fouts ammise poi di avere avuto difficoltà a sentire bene il pallone. Alla fine peraltro non è che il freddo fece realmente tutta questa differenza: i Bengals vinsero sì 27-7, ma guadagnando 318 yard contro le 301 degli ospiti e sfruttando più che altro alcuni palloni gettati dai Chargers e l’efficienza del proprio attacco, guidato dal Qb Ken Anderson (16/22 per 161 yard) e dal running back Pete Johnson (80 yard), e già protagonista in regular season quando Cincinnati aveva vinto 40-17 a San Diego, dove le condizioni atmosferiche (era novembre) non avevano avuto alcuna influenza.
4. Piccolo accenno, con un pizzico di vergogna. Perché si tratta del tipo di citazioni che di solito fanno i giornalisti per ingraziarsi o ringraziare persone a loro vicine ma delle quali al grande pubblico giustamente non frega, né dovrebbe fregare, assolutamente nulla. Utilizzo privato di mezzo pubblico: come quando si saluta l’uscita di scena di un addetto stampa o PR, o un oscuro (per la gente) ma utile (per il cronista) dirigente. Stavolta facciamo lo stesso, ma con un vantaggio notevole per la nostra coscienza: ovvero, che il diretto interessato mai saprà del nostro saluto, e che nel frattempo, con la scusa, possiamo illustrare alcuni meccanismi al Super Bowl. La persona è Lee Remmel, 83 anni, che è andato in pensione il 31 dicembre scorso. Remmel dal 1945 (!) al 1974 ha seguito i Green Bay Packers per la Green Bay Press-Gazette, poi a 50 anni è diventato capo ufficio stampa del club, posizione occupata fino al 2004, quando, in una sorta di pre-pensionamento, è stato nominato storico ufficiale del club. Con la tribuna stampa del Lambeau Field che si chiama ‘Lee Remmel Press Box’. Ma c’è di più: come forse non tutti sanno, al Super Bowl i responsabili stampa delle squadre NFL (ovviamente quelle che non si sono qualificate per la partita) svolgono importanti compiti organizzativi. Il ragionamento è semplice: trattandosi di una delle più grandi manifestazioni sportive del mondo, con i suoi 3000-e-passa giornalisti accreditati ed un numero cospicuo di conferenze e incontri stampa, si affidano gli incarichi più gravosi a coloro i quali già li ricoprono durante la stagione. Per cui a porgerti il microfono durante la conferenza stampa del Commissioner al venerdì non è la solita scosciata in minigonna ma il capo ufficio stampa dei Jets o dei Dolphins, per dirne una. Ebbene, per anni Remmel di questo complicato meccanismo è stato, semplicemente, la voce: nei casi in cui i Packers non erano al Super Bowl, era infatti lui ad occuparsi di tutti i messaggi all’altoparlante, richiamando i giornalisti, comunicando cambiamenti di programma, annunciando l’imminente inizio di qualche conferenza stampa. Con il suo vocione basso, partiva con “attention media”, e aggiungeva l’informazione relativa. Sempre con la polo verde o giallina dei Packers, pantaloni beige e scarpe da basket un po’ incongrue per un signore della sua età, che lo aveva reso oltretutto claudicante. A questo mondo si fa a meno di tutti (compresi noi, ovviamente), ma almeno nelle prime ore al Super Bowl di Phoenix, sentire al microfono della sala stampa una voce nuove farà, a molti, una strana impressione.
5. Confessione: analisi e approfondimenti tecnici del tipo che abbiamo velocemente tentato di fare nella parte centrale di questa rubrica sono del tutto inutili, perché vinceranno i Pats, e la decisione è stata presa in alto, MOLTO in alto. Chi lo dice? Sky, nella sua rivista mensile, a pagina 61. Ce lo ha segnalato ancora Alessandro Santini, guardiano del faro che già due settimane fa aveva impedito in extremis che la nostra antipatia per classifiche e pronostici ci facesse scrivere un mare di putt…ehm, imperfezioni sulle combinazioni di playoff possibili prima dell’ultima giornata di regular season. Nell’articolo in questione si legge infatti che non ben determinati “uomini di marketing” avrebbero puntato per quest’anno sulla coppia Brady-Moss, e che se mezzo mondo si interessa al Super Bowl non è certo per la partita in sé ma perché per gli americani è una questione di vita o di morte. Sarà: ma a parte il fatto che anche la finale di Champions League è seguita in mezzo mondo mentre Besiktas-Sporting Lisbona della fase a gironi no, questa storia che dietro ad ogni espressione pubblica americana, sportiva o non, ci debba sempre essere qualcosa sa molto di italiano e ci ha decisamente rotto le scatole. Scusate, ma non era in realtà da noi che il campionato dello sport più popolare era truccato?
PS: -25.

Roberto Gotta
http://vecchio23.blogspot.com

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