Le lezioni del professor Bazan

24 Ottobre 2012 di Stefano Olivari

pallavolo vittorio veneto

Cos’abbiamo in comune con Rino Tommasi? Non certo la professione di giornalista, perché noi anche nell’era pre web (e quindi senza scusanti e vittimismi 2.0) abbiamo fatto solo gli operai dell’informazione mentre lui dopo il decennio da organizzatore ha vissuto da vicino la maggior parte dei grandi eventi sportivi del pianeta (il mese a Kinshasa nel 1974 per Alì-Foreman già da solo basterebbe a dare senso a una carriera). In comune con il grande Tommasi, del quale è uscito di recente un nuovo libro a metà fra boxe e tennis, ‘Maledette classifiche’ (anche se imperdibile rimane il suo ‘La Grande Boxe’, scritto 26 anni e letto almeno una decina di volte), abbiamo la frequentazione del liceo scientifico Vittorio Veneto (lui nei Cinquanta, noi negli Ottanta) e la partecipazione al relativo campionato giovanile di atletica. Anche in questo caso ne usciamo male: a suo dire aveva tutti 8 e 9, quando noi si navigava ai confini degli esami a settembre e l’unico 7 era in condotta. Sul campo aveva vinto la gara di salto in alto, mentre noi volevamo partecipare agli 800 ma un’esigenza di squadra, visto che ci sono gare che nessuno vuole fare, ci impose di arrivare ultimi nel peso (non che negli 800 avremmo fatto meglio). Per dirla tutta, qualche anno dopo nel salto in alto del Vittorio Veneto avrebbe brillato una Eleonora Brigliadori non ancora annunciatrice di Telemila 58-Canale 5.

Questi bolsi pensieri ci sono venuti alla mente leggendo l’articolo di Giorgio Specchia, uno degli autori di punta della nostra casa editrice (fra poco esce il suo ‘Il Buttafuori’: taac, la marchetta), sulla Gazzetta di sabato scorso, riguardante lo sport nei licei milanesi e non solo. Con allenatori che si scontrano con la diffidenza dei colleghi professori e molti fra gli stessi ragazzi che percepiscono l’educazione fisica come una materia di serie B. Specchia parte da tre allenatori-professori entrati nel cuore di più generazioni non per parlare dei campioni di vari sport che pure hanno contribuito a forgiare, ma per suggerire che forse è arrivato il momento di rivedere il modello sportivo italiano basato sui club e di dare un senso più compiuto all’espressione ‘attività di base’. I tre eroi di culto sono Enrico Bazan, Mario Borella e Claudio Monti: tre che in America, nella volgare, commerciale e attaccata al denaro America sarebbero nella Hall of Fame insieme a coach professionisti. Non è tanto per dire, basta contare quanti allenatori di high school sono presenti nelle varie Springfield della situazione.

L’unico che abbiamo conosciuto personalmente è il professor Enrico Bazan, anima del volley del Vittorio Veneto e di Milano, con una squadra capace di arrivare quasi in cima alla piramide e tanti insegnamenti a ragazzi che poi sarebbero diventati grandi da altre parti (su tutti Claudio Galli, che i più ricordano al Gonzaga e a Parma). Parentesi: quel V.V. giocava al Palalido, facendo acrobazie per trovare i soldi per l’affitto, quel Palalido oggi sventrato in attesa di diventare PalaArmani con consegna che continua a slittare (settembre 2013 l’ultima proiezione, ma ancora qualche anno e potranno farci direttamente una moschea). Il secondo eroe, questa volta si parla di pallacanestro, è Mario Borella. Proprio quel Borella del quale Oscar Eleni ha scritto tante volte: di recente gli è stato intitolato un campo in via Dezza. Scopritore di Sandro Gamba e di tanti giocatori che avrebbero brillato nell’Olimpia, Borella è stato lo storico coach del Leone XIII, crescendo  tre futuri allenatori di Serie A: Guglielmo Roggiani, Franco Morini e Pippo Faina. Claudio Monti, prof al San Carlo di corso Magenta, per noi è soprattutto stato un (grande) uomo della Pallacanestro Milano (quella di Jura, eccetera: parliamo sempre delle stesse cose!) dalla cultura e dalle attività multisportive, morto nel 2007 a pochi giorni dalla finale di Champions League di Atene (era supertifoso del Milan, contravvenendo alla regola che impone a un insegnante di educazione fisica di odiare il calcio) per cui aveva già il biglietto in mano.

Più dei nomi, visto che ogni città ha i suoi piccoli grandi eroi che rubano tempo alla famiglia e alla vita, conta il principio: senza grandi costi aggiuntivi, visto che in molti casi le strutture ci sarebbero già, un’attività sportiva di base e senza l’obbiettivio di formare campioni sarebbe possibile. A volte sono sufficienti insegnanti che rifuggano dalla mentalità impiegatizia e assumano coscienza del loro ruolo, diventando importanti almeno quanto quelli di lettere e matematica. Ci vogliono anche ragazzi che si schiodino dal computer e dai tanti obblighi che si autoimpongono nel nome di una male intesa idea di competitività.

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