Il richiamo del faccionismo

25 Aprile 2010 di Stefano Olivari

di Alberto Facchinetti 
Come mai sono così pochi i giornalisti sportivi che rifiutano le ospitate televisive? Le risposte più scontate sono in questo caso quelle corrette…
 

Soldi e popolarità. I giornalisti sono molto spesso assai vanitosi e sull’euro (quando c’è) non sono abituati a sputare sopra. Sono questi i motivi principali per cui i giornalisti sportivi della carta stampata scelgono di apparire in televisione. È quello che è uscito dalle risposte che ci hanno dato molti della categoria. Raro che qualcuno non abbia citato alcuna delle due motivazioni. 
Gianni Mura nelle televisioni private è apparso poco. “Ricordo un paio di presenze a Pescara (quando allenava Galeone), una a Napoli (con Pesaola, quando giocava Maradona), un paio a Brescia e Verona negli ultimi tre anni. Per due anni filati (dovevo pagare il mutuo della casa, a mia parziale scusante) sono apparso su Telelombardia in un programma del lunedì (inizio ore 21) come ospite fisso di un programma il cui conduttore era Michele Plastino e gli altri ospiti fissi Baresi e Bergomi, i capitani delle due squadre milanesi”. È in generale il mezzo televisivo che Mura ama molto poco. “Per completezza aggiungo che, sulla Rai, nel ’95/96 mi pare, sono apparso con una certa frequenza. Il programma andava in onda a mezzanotte inoltrata (traino: Tempo dello spirito) nello stesso studio della Ds. Si chiamava Il processo del lunedì, titolo di proprietà Rai (in quell’anno Biscardi era passato a La7, e infatti il suo programma si chiamò Il processo di Biscardi). Il conduttore in Rai era Gigi Garanzini, mio amico. La nostra idea era di fare l’esatto contrario di Biscardi. In trasmissione si fumava, si beveva, non si urlava, si affettavano salami. Era, per rendere un po’ l’idea, la pacatezza distesa dell’osteria contro l’isterismo del bar sport. Era un programma-cult (trovo gente che me ne parla, rimpiangendolo, ancora adesso) e assolutamente in controtendenza: infatti è durato una stagione. Ma ha avuto a sua volta imitatori: veda l’Osteria del Pallone (sempre con Garanzini, ma in atmosfera più fasulla) su Sky la domenica a mezzanotte. E anche le tv di Brescia e Verona erano modellate così: si mangiava e si beveva (fumare proibito)”. Per Mura soldi e popolarità sono i motori che muovono i giornalisti ad apparire in tv. “Popolarità e raddoppio delle entrate mensili, come minimo”. Sulla popolarità di un giornalista che cresce quando va in tv, racconta anche un episodio che lo riguarda. “Dei tempi in cui apparivo su Telelombardia: stavo andando in ufficio (via Turati, allora) in tram, ed ero dalla parte del conducente. Sul fondo, sento un bambino dire: papà, ma quello è Gianni Mura? E il padre: figurati se Gianni Mura prende il tram. Credo che nella sua visione per il semplice fatto di essere col faccione sui teleschermi mi spettasse una macchina con autista”. 
D’accordo con Mura tutti i colleghi sportivi di Repubblica. Anche Maurizio Crosetti ricorda di esserci andato. Per soldi. “Lo facevo all’inizio, da giovane. Ricordo un programma che pagava le ospitate con sterline d’oro (!), e sia ben chiaro che i giornalisti vanno in tivù o per vanità o per denaro o per le due cose insieme. Un’altra volta, in un’emittente torinese la valletta era una Stefania Rocca alle primissime armi: vidi una ragazza carina ma non mi accorsi della futura diva (forse ero troppo preso dalla sterlina). Poi ho capito che è meglio ridurre le parole, e le ospitate. E purtroppo nessuno più paga in nero”. E per quanto riguarda la vanità della categoria dice: “Molti di noi sono, francamente, persone insopportabili”. Il giornalista di Torino spara anche la cifra che si può ottenere. “Ci sono gettoni-presenza – dice – che sfiorano e a volte superano i mille euro a botta”. Anche per Mura i soldi che si possono ottenere sono molti. “S’informi sui gettoni di presenza delle tv locali, li moltiplichi per otto e avrà una vaga idea”. Pure per Andrea Sorrentino  “le molle sono essenzialmente due: la vanità e il denaro, non necessariamente in quest’ordine”. Sorrentino è uno che in tv ci va. “Piuttosto spesso, sì. Sono nato a Roma, dove moltissime radio e tv locali parlano di calcio, e ho iniziato a fare il giornalista proprio in una radio privata, nel 1990. Dal 1997 lavoro a Repubblica ma ho continuato a partecipare ad alcune trasmissioni, in qualità di ospite, anche a Milano, dove mi sono trasferito da qualche anno. Ma evito accuratamente, da sempre, i dibattiti urlati”. Di meno ci va Emanuele Gamba. “Talvolta, ma non troppo frequentemente e in ogni caso sia a trasmissioni strettamente piemontesi sia ad altre interregionali, che coprono settori più vasti del territorio nazionale. Ho sempre cercato, in ogni caso, di selezionare le mie apparizioni”. Anche per Gamba “la gratificazione è prima di tutto economica: ci sono colleghi che fanno gli ospiti televisivi di mestiere, raggranellando compensi notevolmente superiori allo stipendio mensile di un redattore, ma anche di un capo-redattore o di un inviato”. Svela che esiste perfino un procuratore per i giornalisti “che procura ospitate televisive al proprio assistito. Fare l’ospite, oltretutto, è un lavoro che costa molta meno fatica: basta parlare, o urlare, per un paio di ore al giorno e il più è fatto. Naturalmente il desiderio di apparire è un aspetto importantissimo, quasi al livello di quello economico: la popolarità che garantisce la televisione, compresa quella elargita dalle più modeste emittenti locali, è assai superiore a quella di chi magari scrive per anni su un quotidiano nazionale a grande tiratura. Purtroppo nella maggior parte dei casi viene accreditata anche maggiore autorevolezza. I giornalisti da video firmano autografi, vengono riconosciuti e ascoltati, vengono riveriti nei locali pubblici: sono gratificazioni che, per una certa categoria di persone, sono assolutamente vitali”
Massimo Norrito è nato nelle tv private, “da quella di quartiere a quella regionale. Ancora oggi partecipo settimanalmente a delle trasmissioni”. Lui cita soprattutto la popolarità. “Alla base di tutto però c’è il fatto che la televisione è un incredibile mezzo di popolarità. Ci sono fior di giornalisti che scrivono per anni su importanti testate nazionali e che nessuno conosce. Basta che passino dieci minuti nella più scalcinata televisione privata per diventare dei personaggi a tutti gli effetti”. Per finire con i giornalisti di Repubblica, Antonio Dipollina le locali le ha frequentate poco. “Due o tre volte al massimo, molti anni fa, e mi occupavo di sport e non di televisione. Occupandomi oggi di tv, e soprattutto da quando lo faccio nella veste del cosiddetto critico, preferisco andare in tv solo in casi di assoluta necessità, che per fortuna si verificano molto raramente”. Anche per Dipollina “senza il gettone di presenza, sempre piuttosto robusto, non si presenterebbe nessuno. Dalla frequenza con cui vedo certi personaggi in trasmissioni di questa o quella tv locale, è ovvio che casomai quello nel giornale di provenienza è diventato il secondo lavoro”.
Giampiero Scevola nelle private ci è andato spessissimo. “Ho iniziato negli anni ‘80 quando ancora arbitravo e andavo a TeleMilano per spiegare il Regolamento di giuoco. Poi le ho passate tutte, come ospite (Telenova) e come opinionista (Telelom

bardia, Tele+, Telemontecarlo, 7 Gold)”. Pure lui è d’accordo. “L’apparire è il motivo principale, ma anche il guadagno ha la sua bella parte. Noi giornalisti siamo tanti vanesi. Soffriamo di narcisismo e non vediamo l’ora di mettere il faccione in tv (vede che parlo al plurale, perché anch’io mi ci metto in questo guazzabuglio osceno)”.
Nemmeno quelli che lavorano in Gazzetta non si spostano dall’idea che tutto è mosso da soldi e popolarità. Sia chi la snobba, sia chi la fa. Sebastiano Vernazza in tv ci è sempre andato pochissimo. “A Telefriuli, per lo più, dato che da anni seguo l’Udinese”. Lui mi ha risposto: “Soldi, niente altro che soldi, e la conservazione del proprio quarto d’ora di popolarità. Molti giornalisti percepiscono un secondo stipendio, grazie alle tv locali, quei mille euro in più che alla fine del mese marcano un po’ di differenza”. Nicola Cecere racconta la sua storia per arrivare alle medesime considerazioni. “Collaboro da 12 anni con Antennatre, recentemente assorbita dal gruppo Tele Lombardia. Non so gli altri, parlo per me. Io nasco radiocronista: ero la voce di Radio Irpinia tra il 1976 e il 1983. E’ il mezzo che trovo più congeniale per trasferire le emozioni del calcio e per esaltare la mia vocazione al racconto: con la voce devo farti vedere la partita. Il massimo. Ma è un mestiere finito, da quando c’è Sky. La televisione la amo meno, però ho fatto pure il telecronista, sempre in quegli anni: è la legge della gavetta, devi dire di sì a ogni opportunità. Qui in Gazzetta non sono mai stato ingabbiato, in 23 anni ho sempre potuto esprimere le mie opinioni liberamente, dunque sono finito in tv sostanzialmente per un motivo economico: mi hanno proposto una collaborazione come opinionista, il direttore dell’epoca, Cannavò, e quelli successivi mi hanno autorizzato a farla. Perché nell’era dell’immagine la sola firma non basta più. Di recente mi ha telefonato un lettore: salve, compro la Gazzetta da vent’anni tutti i giorni: potrei parlare con qualcuno che segue l’Inter? Mi presento e lui fa: Lei segue l’Inter? Dalla stagione ‘88-89. Ma non ho avuto il coraggio di dirglielo”.
Per Roberto Beccantini (nelle locali “in passato, e sempre molto di rado”) è “un mix: il gettone, la possibilità di urlare, il presenzialismo”. Faccionismo. Alcuni usano questo termine per spiegare perché tanti giornalisti della carta stampata vanno nelle tv locali. “La prima motivazione – dice Stefano Olivari – è il cosiddetto faccionismo: insomma, apparire a qualsiasi costo, per essere riconosciuti dal vicino di casa o dal barista. Con varie gradazioni, tutti siamo vanitosi. La seconda è di sicuro economica: conosco giornalisti della carta stampata che presenziano regolarmente a quattro trasmissioni settimanali su quattro canali diversi, ma il problema più che loro è del loro giornale”. Paolo Ziliani che non ha alcuna presenza nelle locali, mi ha risposto: “Noi lo chiamiamo faccionismo. E’ una malattia grave che aggredisce tutti quelli che si avvicinano al mezzo televisivo. Visto una volta il proprio faccione in televisione, non si riesce più a farne a meno. E non c’è metadone che tenga. Non c’è articolo, non c’è tavola-rotonda, non c’è nulla che ti gratifichi come vedere il tuo faccione nel tubo catodico. Il giornalista colpito da faccionismo regredisce ad una sorta di età fetale e diventa un neonato che non può più vivere senza il ciucciotto in bocca (leggi: faccione in video). Nel 90 per 100 dei casi, non si guarisce”.
I presentatori di queste trasmissioni non contestano nemmeno loro la teoria che un’ospitata dà popolarità e denaro. Per Fabio Ravezzani è “solo una questione economica. Le tv pagano piuttosto bene le ospitate”. Per Gianni Visnadi “il giornalista è già di per sé un egocentrico, uno che comincia e si impone perché vuole dire qualcosa. La tv è certamente una cassa di risonanza più diretta e potente di un giornale. E posso dirlo per aver frequentato gli uni e l’altra”. Sandro Piccinini, che però è conduttore Mediaset (tv privata, ma non locale): “I giornalisti vengono volentieri per motivi di vanità (umanissimi…) ed economici (anche se i nostri cachet sono abbastanza poveri)”. Tony Damascelli invece sceglie un’altra strada. Nella sua risposta, c’è anche qualcos’altro. “Nelle emittenti locali c’è la possibilità di dialogare con il pubblico a casa che è poi il lettore dei quotidiani”. Salvo poi muovere una critica: “L’affollamento di certe tribune è indice di una ridotta inventiva editoriale; si pensa, infatti, che il numero faccia spettacolo, credo invece che un confronto ristretto, a due, tre, quattro al massimo, ospiti possa garantire un prodotto eccellente (Otto e mezzo, di Giuliano Ferrara)”. Va in controtendenza Gianluca Rossi. Per lui il denaro non conta nulla, la popolarità quella sì: “A TL e Antenna 3 vengono prima di tutto per la popolarità, non certo per il denaro. Non sono certo gettoni d’oro, che che  se ne pensi! Che poi TL sia una tv libera, visto che vivo da 18 anni, lo dicono i dati d’ascolto e gli ospiti anche scomodi come Moggi, che a volte vi compaiono… Credo che qui si possa davvero dire tutto e a volte anche di più”.
Anche Giancarlo Dotto tenta di sminuire l’importanza del gettone presenza. “Si credeva fosse al primo posto ma era una valutazione errata: alcune tivù hanno smesso di pagare per sopraggiunta crisi e molti ospiti sono andati lo stesso. Comincio a credere che pagherebbero anche di tasca loro per andarci. Il problema è che cominciano a capirlo anche gli editori televisivi”. In cima alla classifica pure lui mette la vanità e l’esibizionismo. “Inviati anche importanti di giornali autorevoli in un’ora di televisione locale acquisiscono riscontri di pubblico equivalenti a un anno di pubblicazioni cartacee”.  Giorgio Micheletti spiega invece la scelta di chiamare da parte delle tv locali i giornalisti sportivi della carta stampata. “La risposta può sembrare banale: dato che siamo tutti in tv, chi possiamo invitare se non quelli della carta stampata? Primo: hanno voglia di farsi vedere, secondo: possono avere fonti di approvvigionamento notizie diverse dalle nostre, terzo: magari citano la tv o la trasmissione nei pezzi che loro scrivono, quarto: più sono conosciuti e più danno lustro alla trasmissione, quinto: hanno una visione del problema diversa dall’immediatezza che la tv comporta. Cioè, con l’invito del giornalista della carta stampata, che ha fatto fare un salto di qualità alle televisioni (basti pensare che tutti gli opinionisti di peso in tv – Cucci, Sconcerti, Tosatti – vengono dai giornali e non viceversa) hai realizzato parte del vecchio detto giornalistico che la radio ti dà la notizia, la tv te la fa vedere e il giornale te la spiega”. Anche perché, sostiene Piccinini, “le trasmissioni sono sempre affollate perché fare un talk show senza ospiti sarebbe dura…”.
Italo Cucci racconta invece le sue esperienze in tv e perché i direttori mandano i giornalisti alle trasmissioni. “Per quel che mi riguarda, la prima apparizione in tivù (se ben ricordo il Processo alla Tappa di Sergio Zavoli nel ‘69, quando denunciai il doping di Merckx) fu del tutto casuale, un invito al quale risposi anche perché ero un ammira
tore di Zavoli. Successivamente, fui incaricato di qualche partecipazione dai direttori del Resto del Carlino. Dal ‘75 partecipai attivamente alle trasmissioni sportive per reclamizzare il Guerin Sportivo: i risultati furono ottimi. Nel contempo, le presenze furono certamente utili, per me come per gli altri, dal punto di vista personale: la grande visibilità fece conoscere alla gente i volti delle firme. E anche i giornali gradirono la novità. Oggi la ritengono fondamentale”.
 

 Avevamo ipotizzato che ci fosse anche una questione più nobile che spiegasse un così intenso traffico dei giornalisti della carta stampata negli studi televisivi. Ma ammettono che non è così. Scevola ci ha risposto “Lasci perdere la libertà di poter dire quello che si vuole o qualcosa di diverso da quello che ognuno scrive, sono leggende metropolitane: conta solo apparire e guadagnare”. Olivari: “La motivazione nobile da voi citata può in qualche caso esserci, visto che in realtà serie non è che facciano fare l’opinionista a tutti, ma mi sembra statisticamente minoritaria rispetto alle prime due”. Sorrentino: “Quanto alla libertà, direi che invece è un discorso di tempo a disposizione: sul giornale hai uno spazio limitato per scrivere quello che sai o che pensi, in tv hai campo libero e puoi raccontare più cose. Ma spesso anche la tv è un’arma a doppio taglio: se ad esempio esprimi un parere negativo su un giocatore o su un allenatore dalle colonne del tuo giornale, può anche darsi che l’obiettivo delle tue critiche non lo venga a sapere perché non legge il giornale; ma se lo dici in tv, puoi star sicuro che il giocatore in questione lo verrà a sapere, o perché glielo riferiscono o perché ti ha visto. E il giorno dopo avrai un nemico in più… A me è capitato tanti anni fa, a Roma, con il giocatore Di Biagio: sul giornale gli mettevo spesso 5 in pagella o comunque lo criticavo, ma lui non lo sapeva; una sera parlai male di lui in tv, lo seppe e non me lo perdonò mai…”. “E poi – sostiene Vernazza – chi partecipa a certi programmi (o scrive in un certo modo) non è disposto a dire la verità, ma si preoccupa di dire (o scrivere) quel che gli conviene”. E anche Gianni Mura: “Sul motivo più nobile, dopo una certa riflessione dico no. Un buon giornalista è libero di scrivere quello che gli pare sul suo giornale e di dire quello che vuole nella sua tv: ne risponde con la sua firma e la sua faccia. In queste scelte la libertà d’espressione non c’entra proprio. La sola cosa chiara è che le tv, private o pubbliche, hanno bisogno dei giornalisti della carta stampata per tenere su in qualche modo la baracca”.
Le tv locali invitano i giornalisti sportivi della carta stampata, perché  di loro hanno bisogno (per le loro competenze, e poi perché chi altro potrebbero invitare?) per riempire i salotti dei talk-show. E loro ci vanno. Di frequente. Sembra addirittura sia nata una nuova figura. Quella del procuratore che trova ai giornalisti che assiste le ospitate in tv. Escludiamo da subito che ci vadano per la libertà di espressione: perché quella di dire non è maggiore di quella di scrivere. I motivi sono altri. I soldi: a fare il giornalista della carta stampata non si guadagna così  tanto come si potrebbe immaginare, neanche a fare l’inviato o il caporedattore. E andando in tv più di una volta alla settimana, si riesce a prendere un’altra mensilità. Poi c’è il faccionismo. I giornalisti sono tanto vanitosi e nelle ore passate davanti ad una telecamera hanno la possibilità di riempire abbastanza il loro ego. Dopo un passaggio in tv, la gente inizia già a riconoscerli per strada. Cosa che non succede se si rimane in un quotidiano, neanche dopo trent’anni di carriera. E a volte per un quarto d’ora di popolarità, si può anche passare sopra alla questione economica. Questo se è vero che i cachet delle locali per gli ospiti si stanno via via impoverendo: ma i giornalisti continuano comunque ad andarci. Probabilmente perché le apparizioni in tv sono una spinta forte per la carriera. È tanto lontano il giorno in cui saranno i giornalisti (o i giornali) a pagare per farsi vedere in tv? 
Alberto Facchinetti
(per gentile concessione dell’autore, fonte: ‘Il giornalismo sportivo. Il rapporto tra la carta stampata e le tv locali da Gianni Brera ad oggi’, tesi di laurea in discipline dell’Arte, Musica e Spettacolo all’Università di Padova, anno accademico 2006-2007)

Share this article