Ghali, ninna nanna di quartiere

21 Novembre 2016 di Paolo Morati

Siamo a casa di amici e uno dei figli, quasi tredicenne, prende lo smartphone e cerca un nome: Ghali. Parte un brano rap (Ninna nanna), un genere che non abbiamo mai particolarmente ‘sentito’. Sì, da ragazzini si ascoltava qualcosa: ma l’andamento cantilenante e ripetitivo non faceva per noi, devoti di altri generi. Poi si cresce, ma i gusti alla fine sotto sotto rimangono e non abbiamo quindi mai approfondito più di tanto ritenendolo legato a un mondo distante dalle nostre esperienze acustiche più spensierate. Il giorno dopo però non ci togliamo dalla mente alcune frasi di quel brano e decidiamo di metterci a studiare (si può fare anche da ultraquarantenni, eh?). “Ninna nanna, ninna ninna oh, Uooh ooh, Questo flow a chi lo do?, Uooh ooh, Con i sogni dentro al biberon, Rollin’ rollin’ rollin’, Rolling STO”. Si accende al lampadina dei ricordi di nostra nonna che cantava: “Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do, lo darò alla befana che lo tenga una settimana…, lo darò all’uomo nero che lo tenga un anno intero… lo darò all’uomo bianco che lo tenga finché è stanco”.

Curioso. In gergo per flow si intende la sequenza delle rime di una canzone, poi ci sono i sogni di bambino, e il gioco di parole che alla fine potrebbe esprimere chi sta rotolando (a terra?). Sarà mica che anche la nonna ci intratteneva con il rap senza saperlo? “Interessante”, ci diciamo e proseguiamo ad ascoltare bene. “Sono uscito dalla melma, da una stalla a una stella, compro una villa alla mamma. E poi penserò all’Africa, figlio di una bidella, con papà in una cella”. Ghali è nato a Milano, figlio di immigrati tunisini, e in questa frase racconta senza mezzi termini la sua infanzia, e cita sua mamma che appare sulla copertina del singolo insieme a lui. Ecco la mamma, una parola così italiana e di riferimento, universale, con la quale nel bene e nel male tutti ci facciamo prima o poi i conti.

In una recente intervista a Rolling Stone il ragazzo che sta scalando le classifiche dei gusti dei teenager misurati in visualizzazioni su YouTube ha detto “Mia madre ha sempre fatto lavori umili. So che lì fuori qualcuno ha avuto una storia familiare simile alla mia, e io voglio raccontarla, perché possa ritrovarsi… Chi è cresciuto per strada fa molta fatica a raccontare. È come se avesse dei traumi. Quindi si tende a sognare, a disegnare quello che si vorrebbe vivere… Col rap puoi raccontare qualsiasi cosa. È una piattaforma per esprimersi. Dire ‘questa cosa non c’entra col rap’ è sbagliato”. Oltre un anno fa al blog La città nuova del Corriere inoltre dichiarava: “Il mio quartiere e la mia esperienza personale di vita mi hanno insegnato che io non voglio più vivere così. Ho visto tante cose, da fuori e da dentro, e vorrei far capire ai ragazzi che definiamo ‘di quartiere’ che le strade secondarie creano solo scompiglio”. Un manifesto impegnativo.

Detto questo, è possibile che la maggior parte dei ragazzini al di fuori del suo particolare contesto oggi lo ascoltino senza approfondire più di tanto il significato dei suoi testi, percependoli più come giochi di suoni e provocazioni su cui costruire la propria immagine di gruppo e appartenenza. Tuttavia la lezione “per tutti quelli così come noi, da sempre in corsa, sempre a metà”, è invece di andare più in profondità, cercando di capire le radici delle storie di tutti i giorni che alla fine sono più comuni di quanto non appaiano. Che siano pop o rap la sostanza, alla fine, non cambia.

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