Fenomenologia di Philippe Gilbert

29 Aprile 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
 24 Aprile 2011, una domenica bestiale. Il clima insolitamente caldo per le Ardenne pare prestarsi meglio all’eccezionalità dell’evento: una giornata speciale per la (piccola) storia del ciclismo, una nazione lacerata e un ventottenne figlio di quella terra. Un milione di persone sulle strade, in un’atmosfera di euforia collettiva totalizzante, assistono al trionfo di un corridore che, scortato dalla non irresistibile concorrenza degli Schlecks, mantiene la promessa fatta a un popolo intero. Anzi, due. Philippe Gilbert, per la quarta volta in una settimana e mezzo, passa la linea del traguardo da dominatore assoluto.
Ma stavolta, sulla collina di Ans, subito dopo l’arrivo trasfigura nell’immaginario della folla festante. Da campione a icona, accompagnato da una passione talmente vigorosa da spaventare chi non conosce il rito pagano della pedivella. “Pas de Flamands, pas de Wallons, juste des Belges”. Paese bizzarro e arcigno come le sue case senza balconi e i tetti a punta, immerso in una crisi politica che propone lo spettro incombente della secessione. Le Fiandre contro la Vallonia e in mezzo un esecutivo tecnico che manda avanti la baracca da un anno. Phil, vallone della zona di Verviers, sembra materializzarsi per stigmatizzare la bipolarità belga: è il primo fuoriclasse dai tempi di Eddy Merckx che cancella la distinzione etnica. Lo fece una volta, senza pensarci, ai microfoni della tivù di stato dopo la vittoria (cinquanta chilometri di fuga..) nel “piccolo” Giro delle Fiandre: quel pomeriggio, all’Het Volk 2008, si ebbe l’annuncio di un fuoriclasse; ma nel post gara cominciò anche la liaison tra i belgi e Gilbert. Si rivolse in fiammingo agli intervistatori, alquanto sorpresi, facendo cadere immediatamente il pregiudizio linguistico. Una maniera diretta per rivendicare gli ideali che fondarono il Regno (“L’unione fa la forza”). Fu proprio in quel preciso istante che pose, involontariamente, le basi della sua popolarità futura.
Uomo simbolo, oggi, residente a Montecarlo al pari del rivale Tom Boonen:
trattasi volgarmente di una questione d’argent, contraddittoria per un personaggio così verace. Ma nemmeno la querelle dei pernottamenti in territorio belga, al trentunesimo dì scatterebbe la sanzione pecuniaria, sembra fregare alla moltitudine adorante. Anche perchè l’ubriacatura di questo periodo consentirà al Ministero delle Finanze un bel bingo: il secondo sponsor dell’Omega Pharma è la Lotto, ovvero un concorso statale (con gli incassi in incremento) che permette di recuperare tanti sghei per le casse dell’erario. La Gilbertmania ha portato diciassettemila (!) spettatori sui mille metri finali dell’erta di Huy e gli ascolti televisivi della RTBF a livelli impensabili: c’est comme si la Belgique avait remporté le Mondiale de foot.
Ma rischia di far passare in secondo piano la grandezza tecnica e agonistica del soggetto, da tempo un culto per tutta l’Internazionale Ciclista che segue classiche e giri.
E’ la combinazione, lo chassis complessivo, che affascina: il corridore e l’uomo. Dopo eoni di Tourannosauri il movimento ha un numero uno acclarato, vero, che corre quasi tutto l’anno; lo fa con il fuoco dentro e l’epica dei Grandi di questa disciplina. Usando il linguaggio cifrato di Anello vorremmo che anche l’Uci se ne rendesse conto. In gruppo talvolta ci si azzecca; si vedono cose che un banale ordine d’arrivo non chiarisce. Al Tour bonsai della categoria juniores, il Giro della Lunigiana, lo notarono molti colleghi: “C’è un belga che vola” fu il mantra. La Toscana e il Bel Paese sono un leitmotiv gradevole per Philippe, che nacque in una giornata storica per lo sport azzurro: il 5 Luglio 1982, il giorno di Italia-Brasile e di un’affermazione che scelse un pratese, il Pablito, a mò di vessillo.
Il destino curioso, nell’odissea di Gilbert, è l’incrociarsi e il ripetersi di coincidenze astrali:
cresciuto in una famiglia di cultura ciclistica, decise di darsi all’agonismo dopo aver assistito (per la prima volta) alla corsa dei sogni. Ai piedi della Redoute, a due passi dall’uscio di casa, vide la Liegi-Bastogne-Liegi; era il 1992 e la Doyenne fu vinta da Dirk De Wolf. Veltro faticatore e passista formidabile, malgrado tutto più a suo agio come domestico di lusso (portò il povero Rudy Dhaenens al titolo iridato) che da capitano, sarà pochi anni dopo il mentore del giovanissimo vallone. E’ alla Go-Pass dell’ex scudiero di Bugno che Phil getta le basi del sua fama: rara combinazione neuromuscolare, impara a correre e ad allenarsi da fiammingo. Poche balle per la testa, tantissimi chilometri per accumulare fondo e un fiero disinteresse per gli stereotipi che annichiliscono Robosport.
Tradotto in soldoni, Gilbert fa la vita giusta anche dopo il trasferimento monegasco: niente locali, feste e vida loca.
Capimmo che stava arrivando quando vinse la Parigi-Tours nel 2008: ultimo alloro con i colori Francaise des Jeux
, fu il ringraziamento perfetto a Marc Madiot, il diesse che gli ha consentito di crescere nei pro senza bruciare le tappe. Filippo Gilberti ha caratteristiche che lo accomunano ai nostri più grandi interpreti delle gare di un solo giorno. E’ parecchio toscano, una proiezione moderna dei Bitossi e Bettini, nonchè del suo autentico modello tecnico, ovvero il Bartoli. Di Michelino non ha lo stile elegante, ma condivide la botta, il cambio di velocità da cavallo di razza e il talento poliedrico.
Fu un altro poker, nell’autunno del 2009, a proporlo come ras del plotone: veramente indicativa fu l’azione vincente al Giro del Piemonte. Partì poco prima del triangolo rosso, alla periferia di Fossano, su una salitella al sette-otto percento: non staccò definitivamente gli avversari, ma li espose a un fuorigiri esagerato. Tanto che completò allo sprint l’opera cominciata con quella coltellata.
E’ stato così altre volte, in maniera esaltante, durante gli ultimi anni.
Nel frattempo ha imparato a disciplinarsi dal punto di vista tattico: la fretta, l’irruenza, lo hanno tradito alcune volte (ultimamente sempre meno..), ma lo spettacolo è garantito. Attendi l’uppercut di Phil e quando si concretizza, a dispetto della previsione azzeccata, ci si stupisce ancora. Indicativo fu il numero alla Vuelta 2010 a Malaga: fece davanti gli ultimi seicento metri, in ascesa, con un rapporto infame (spaccagambe) che non permise a Purito Rodriguez, uno forte veramente, di recuperare. Un po’ Saronni a Goodwood e quel che resta (il padellone spinto) parecchio Hinault/Fignon.
E’ divertente ricostruire il mosaico del suo strapotere; che sembri estate come all’Amstel qualche giorno fa o in uno scenario autunnale tipo Lombardia 2010,
Gilbertino mette paura alle truppe nemiche. Il piatto forte è il lavoro lattacido, sulla sottile linea rossa tra sforzo aerobico e anaerobico, quando scatta: la differenza con gli altri è rappresentata proprio da quel minuto e rotti di apnea, tirando a tutta. Longilineo classico (177 centimetri di altezza per 67 chili di peso), ha una pedalata “economica” che ci ricorda un drago degli Ottanta come Eric Vanderaerden, ovvero con la punta del piede quasi perpendicolare rispetto all’asfalto e i talloni esposti verso l’esterno. E’ raccolto sul mezzo, reattivo e riposato, alla stregua di califfi del passato (Argentin, Kelly, De Vlaeminck): ennesima indicazione della predisposizione classicomane.
E’ però evidente che Gilbert vanti wattaggio da arrampicatore;
trattandosi di una cilindrata da Formula Uno non è raro vederlo agli intermedi di una cronometro di un Grande Giro nei primissimi posti. Sono esperimenti occasionali che ne testano il motore in vista degli appuntamenti importanti, ma significano anche che

, se volesse (..), potrebbe anche trasformarsi in una macchina da guerra per tre settimane… Puledro che preferisce le sensazioni ai ciclocomputer (che porta sul manubrio per le prebende ma che non utilizza..) dovrebbe, a nostro parere, porsi come obiettivo un miglioramento della postura da passista. L’attuale è focalizzata, anche nella scelta del telaio, nello sfruttare al massimo il fuorisella fenomenale. Scendendo di uno barra due gradi con la schiena assumerebbe, seduto, una posizione aerodinamica che verrebbe incontro alle notevoli doti di rouler: decisive per consentirgli il completamento vittorioso di certi assoli. Un particolare che, forse a Geelong 2010, di sicuro nella Ronde di quest’anno, lo avrebbe ripagato con un palmarés dai contorni cannibaleschi.
Aspetto sottovalutato, in un ambiente che esaspera la leggerezza quasi anoressica degli sfregaselle, è la tonicità della muscolatura dorsale e degli addominali.
Fondamentale negli sforzi brevi e violenti. Phil è uno dei pochi, come Spartacus Cancellara, che l’abbia curata e sviluppata: è un tratto che invece caratterizzava le vecchie scuole orientali, per esempio la mitica sbornaya di Aavo Pikkuus. Eccellente nella guida delle due ruote, spericolato il giusto in discesa e nelle curve, lo è ancor di più nel “limare” nascondendosi nelle pieghe del gruppo. Il suo territorio, alla stregua dei mammasantissima più importanti, comincia dopo i duecento chilometri di percorso: oltre i duecentocinquanta rimangono in pochi a impensierirlo seriamente. In fondo, il chilometraggio brutale delle classiche monumento (la Rupe Tarpea dei ciclisti) viene incontro ai superdotati.
In cima all’Everest la vista è incantevole ma le bombole dell’ossigeno potrebbero anche non bastare: quali prospettive allora attendono Phil? Innanzitutto il completamento del Grande Slam con la Sanremo e la Settimana Santa. Nelle prime due è già stato protagonista e a un passo dallo scalpo, la Roubaix è invece ancora un pensiero lontano. Sa però che è nel suo destino, la struttura fisica e l’attitudine flahute paiono una garanzia anche per l’acciottolato selvaggio di Arenberg. L’appuntamento più urgente, rimandato a causa di un vento maligno che soffiava dalla baia, è comunque con l’arcobaleno. Se quest’anno a Copenhagen il tracciato è tenero, ma non si sa mai, le prossime edizioni sembrano invece disegnate per i suoi gusti. Nel 2012 lo striscione di arrivo a Valkenburg è posto un chilometro e mezzo dopo lo scollinamento del Cauberg… Se non bastasse, anno di grazia 2013, il circuito mondiale di Firenze (o Leopolda) pare pensato per uno come lui: fu addirittura il primo nome citato dall’illustre tracciatore, Andrea Tafi, il dì della presentazione ufficiale.
Per adesso, dopo un mese di scarico, siamo sicuri di ritrovarlo all’inizio del Tour de France: a Mont des Alouettes potrebbe togliersi lo sfizio di indossare la maglia gialla, magari sopra il nerogiallorosso, in attesa di quella iridata.
Simone Basso

(in esclusiva per Indiscreto)

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