Essere i Clippers

22 Dicembre 2011 di Simone Basso

di Simone Basso 
Dovreste vedere le facce degli interlocutori quando, parlando di sport, diciamo orgogliosamente di non tifare per nessuno. E’ un assioma che ci consente una fruizione più gradevole degli aspetti tecnico-tattici delle contese. Rimangono le simpatie umane ma il fanatismo proprio no, non fa per noi: perchè, durante un concerto sinfonico, dovremmo parteggiare per gli ottoni invece che per gli archi? Il tifo è una malattia infantile come gli orecchioni: da piccoli le conseguenze sono minime, da grandi invece si gonfiano i cosiddetti e si rischia grosso… Però, in fondo al cuore, qualche culto pagano lo conserviamo ancora. Il più lieve, divertito e irrazionale è quello che coltiviamo per i Clippers, storicamente la fazione sbagliata della Los Angeles cestistica.
Una passione nascosta ma non troppo, che all’apertura delle danze della regular ci fa cadere lo sguardo, ogni volta, sul risultato Veliero della notte: succede nei primi due mesi poi, in perfetto stile Paperclips, ci si adegua alla solita stagione sotto il cinquanta per cento di vittorie… Figli di un Dio minore sempre e comunque, i rossoblu sono un universo a parte anche nel disciplinato (dalle leggi..) professionismo americano. Ecco perchè pensiamo, essendo d’uopo l’ambientazione losangelina, che Roy Batty sia uno dei nostri: difatti abbiamo visto cose, noi clipperologi, che voi umani non potreste nemmeno immaginarvi.
La saga della franchigia partì nel 1970 da Buffalo, costa est, con la ragione sociale Braves; preistoria Nba dell’espansione con scalfiti già nei cromosomi le caratteristiche peculiari.
In ordine sparso, il gusto per i fuoriclasse dalle mani alla Rostropovich, le scelte e il mercato dissennati e, last but not least, una sfortuna cosmica. Il pubblico scarseggiava in una città consacrata all’hockey e alla Nfl, al draft passarono oltre Calvin Murphy, futuro Hall of Famer, e tre apparizioni ai playoffs (che considerando lo standard californiano sembrano prodigiose..) non bastarono per radicarli. Erano gli anni dell’Uomo Cavallo Kauffman, di Randy Smith e di un allenatore leggendario, Jack Ramsay. Ma soprattutto fu l’era aurea di Bob McAdoo, sensazionale Nowitzki ante litteram, che realizzò un lustro inenarrabile: centro atipico, un cinque di agilità con le gambe di un quattro e la tecnica di un tre. A dirla tutta, definizione abusata ma in questo caso meritata, era un giocatore del ventunesimo secolo che giocava trent’anni prima.
Le turbolenze societarie, ahiloro, furono innumerevoli e vi risparmiamo i dettagli dei passaggi di proprietà (quattro in otto anni!);
la decisione di spostare i Braves a ovest fu presa da Irv Levin, che scambiò la franchigia (sic) con il precedente owner, John Brown. Levin, incredibile ma vero, gli diede i Boston Celtics: un po’ come vendere uno Stradivari per una chitarrina Eko… Prima del trasferimento, un Picasso: per qualche dì, nel roster, la frontline fu costituita da Moses Malone, Bob McAdoo e Adrian Dantley. Appurato che in alcuni momenti avrebbero dovuto giocare con due Wilson contemporaneamente, trattasi di un trio irripetibile che la dirigenza diede via, in un anno, in saldo.
La vernice della nuova edizione, i Clippers, fu a San Diego.
Lì si rinnovarono le qualità (…) che ne amplificarono la fama, dubbia anzichè no. Squadre poetiche, zeppe di genii incompresi, il gusto forte per la rimpatriata di una gloria locale e la spiaggia garantita per l’intero staff dopo l’ultima partita di stagione regolare. Fu il tempo della coppia Freeman Williams-World B. Free, frombolieri dal talento debordante quanto ingestibile, del poliedrico Michael Brooks (stroncato da un infortunio, altro deja vu Veliero) e di Joe Bryant, papà di Kobe, una guardia rinchiusa crudelmente nel corpo di un’ala forte. La firma del Bruin Bill Walton, parcheggiato in lista infortunati in attesa di un anello trifoglio, diede il via alla serie infinita di enfant du pays. Prima e dopo El Ei, dal 1984 in poi, la sfilata è suddivisibile in tre categorie ben distinte: i califfi in prepensionamento, Marques Johnson (ai Bucks era un’iradiddio), Jamaal Wilkes, Baron Davis, quelli prossimi a un incidente che ne avrebbe rovinato la carriera (Norm Nixon su tutti); infine le stelle di un firmamento promesso e mai realizzato, i John Williams.
Nel trambusto l’arrivo (epocale) del Presidentissimo, ovvero Donald Sterling, che meriterebbe un’enciclopedia a parte.
L’odissea del Benito Fornaciari yankee è mostruosamente bipolare, quasi impossibile da capire con la nostra mentalità, pallonara e avariata. Il palazzinaro di Beverly Hills acquistò i Clippers nel 1982 per nemmeno tredici milioni di dollari; l’altroieri, senza ancora Chris Paul in vetrina, ne valevano trecento. Pur avendo gestito (?) la barzelletta più divertente dello sport stelle e strisce, in questi trent’anni il Tokowitz ha guadagnato una montagna di soldi. Imprenditore d’assalto, squalo del Pacifico, ha rappresentato per eoni la pecora nera di Sternville. Assunse Elgin Baylor da giemme, una provocazione o semplicemente una genialata: se volete realizzare l’entità della mossa pensate, in ottica italiana, ad Alessandro Del Piero amministratore delegato del Torino Football Club. Le leggende metropolitane sul personaggio si rincorrono: dalla segretaria personale incapace di battere a macchina ma coniglietta di Playboy, fino agli insulti dalla prima fila al Barone (“Fat! You’re out of shape!”) passando all’immortale risposta a un suo dipendente sul perchè i Clips risparmiassero sulle calze (“Con i soldi che prendono i giocatori, che se le comprino…”). L’immagine, malgrado interventi di chirurgia estetica che lo avvicinano alla fisiognomica del Joker di Frank Miller, non è migliorata neanche con l’annuncio di propositi filantropici. Forse perchè lo sbandieratissimo centro di assistenza nella Downtown LA, a favore dei senzatetto della zona, non si è ancora concretizzato; in compenso l’area edificabile è una realtà concreta… E sorvoliamo sulla storiaccia che coinvolse l’allenatore Kim Hughes, per carità di patria.
Ma Donald, cavaliere pieno di macchie ma privo di paure, rimane lo yin della novella; lo yang l’hanno incarnato i Piatkowski (“Bel tiratore quel bianco, Pietqualcosa..” “Piatkowski presidente, gioca con noi da sei anni…”) di quel mondo.
Il tremendismo Clippers si realizza nei draft scemi (Olowokandi) così come in quelli visionari che promettevano la conquista del sistema solare: un fenomeno del livello di Danny Manning, atteso a prestazioni messianiche, si ruppe il crociato alla ventiseiesima partita dell’annata da matricola (1989). Diciotto anni anni più tardi Shaun Livingston vide in frantumi prospettive oniriche, alla Penny Hardaway, a causa di un incidente sul parquet dalle dinamiche raccapriccianti. Dal trasloco hollywoodiano, in quasi tre decenni, hanno collezionato solo quattro partecipazioni alla post season e una volta ci si andò (1997) pur provando disperatamente, come del resto fece mezza Nba, a piazzarsi per la lotteria. Il 36-46 infatti non bastò per almeno fantasticare su un certo Tim Duncan e al primo turno arrivò puntuale lo zero tre contro i Jazz di Stockton e Malone.
L’anno prima, in pieno boom commerciale della lega, persino la Cnn si interessò al caso: l’intervista, epica, fu all’unico spettatore che occupava un settore intero della Memorial Sports Arena.
The few, the proud, the Clippers fan. Il fortunato possessore dell’abbonamento rispose nello stile, ironico, chic e snob, dell’appassionato Veliero. D’altronde l’altra metà di Los Angeles vanta pochi tifosi vip ma essenziali: Billy Crystal e il mitologico James

Goldstein, insostituibile gola profonda del gossip En Bi Ei. La ricerca della bellezza, dell’incanto cestistico, ha regalato talvolta il primissimo Odom, un animale da basket troppo divertente per essere vero, e la cavalcata incompleta del 2006. Quando un’unità improbabile di birbe collaudate (Cassell, Mobley, Brand, Maggette) e di sbarbatelli (Livingston, Kaman, Ross) giunse ad un supplementare da una clamorosa finale occidentale.
I Clippers più estatici rimasero comunque quelli del periodo Larry Brown, il campionissimo pazzo delle panchine. Un anno e mezzo indimenticabile. Lui a educare e incitare l’armata, Danny Boy (il supereroe Jayhawks) a fornire l’esempio sul campo: mani e piedi da Olimpo della specialità. Con loro, una sorta di prerogativa filosofica del sosia di Captain Nice, un gruppo di atleti geniali e un po’ sprecati. C’era ancora il Ron Harper degli esordi, una guardia volante e polivalente, totalmente estranea a qualsiasi concetto difensivo (quello dei Bulls sarà stato il gemello monozigote…). Il serpente Ken Norman e il generale Gary Grant: messi assieme, le doti offensive di uno, il palleggio dell’altro, ne sarebbe uscito un All Star. Poi Mark Jackson, principesco in post e nelle assistenze in traffico; l’uomo più posterizzato nella storia dell’Nba. Poverino, capitò sotto canestro durante una space jam del Jordan anni ottanta, che gli atterrò sulla testa realizzando un numero teletrasmesso migliaia di volte. Ma il quadretto più imbarazzante per il newyorchese rimase una due mani, con la zazzera bionda al di sopra del ferro, di Tom Gun Chambers che lo saltò nemmeno fosse un puffo. C’erano i finti magri Stanlio Roberts e Hot Plate Williams, entrambi di scuola LSU: il primo rinunciò al ruolo di centro dominante per dedicarsi alla vida loca, il secondo (Einstein sul legno) preferì il pollo fritto e la birra alla gloria eterna. Infine, per completare lo zoo, Lester The Molester Conner, un cerbero dalle mille vite. Nel 1993, li mortacci, nei playoffs beccarono la pagliuzza cortissima: gli Houston Rockets di un Hakeem Olajuwon irresistibile. Persero alla bella di quattro, giocando in maniera esemplare: Brown aveva a disposizione quintetti dove tutto il personale giostrava, indifferentemente, spalle o fronte a canestro. Peccato che il Profeta nigeriano quella sera fosse intrattabile; a referto infatti scrisse 31 punti, 21 rimbalzi e 7 stoppate. Buonanotte.
Si arriva così all’attualità stretta, al termine di un bordone devastante di sconfitte e illusioni.
Una quarta dimensione cestistica, laterale e subalterna rispetto allo strapotere dei Lakers: la foto migliore, per rappresentare il contrasto tra cuginastri, fu un derby durante l’epopea del miglior Shaq. Al quale, in trasferta, declinarono l’acquisto di una sessantina di biglietti per festeggiare il compleanno; O’Neal, infuriato, si vendicò realizzando un chamberlainesco 61 (punti) e 23 (rimbalzi). Oggi Sterling, roba da stropicciarsi gli occhi, si è messo a investire qualche dollaro e la calata di Paul è un bel simulacro del progetto complessivo: spostare le sfilate gialloviola dello Staples al pomeriggio e occupare le serate. Praticamente la rivoluzione francese con la presa della Bastiglia. Il Pifferaio Magico non si può confondere con un Rondo qualunque, essendo il normodotato (…) che ha maggiormente influenzato le sorti tattiche del gioco dai tempi di Isiah Thomas. Con lui, se in salute, gli altri nove sono costretti alla chrisball: Sternville freme già all’idea di un pick and roll tra CP3 e il Ragazzo Molla Blake Griffin. Continueremo appunto a veder cose che voi umani nemmeno immaginate, però in uno scenario impossibile da pensare fino a pochi mesi fa. E il contorno, l’insalata russa, ci pare competitivo: Caron Butler, Chancey Billups, DeAndre Jordan, Randy Foye. Ma ai Clippers, essendo i Clippers, sicuramente accadrà qualcosa di negativo; ci rimangono un miliardo e mezzo di anni prima che la luna, allontanandosi definitivamente dall’orbita terrestre, concluda la storia umana. Entro quel tempo, forse, isseranno finalmente il bandierone celebrativo del titolo. La confraternita sarà sciolta cinque minuti dopo: che banalità vincere l’anello…

Simone Basso (21 dicembre 2011)

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