Darryl Dawkins e l’arte della guerra

20 Febbraio 2012 di Fabrizio Provera

di Fabrizio Provera
A un certo punto, mentre domenica assistevamo impotenti ai colpi mortali inferti dalla Montepaschi Siena a Cantucky, mentre vedevamo la sofferenza e l’impotenza scolpita sul volto di coach Trinchieri mischiarsi al nostro scoramento, del principe Basile e dei duemila tifosi che avevano raccolto il nostro invito di venerdì (la marcia della Brianza su Torino), abbiamo evocato lo spirito di Darryl Dawkins. Soltanto i 120 chili (nel 1989, oggi chissà quanti sono) di Chocolate Thunder, dell’indimenticato 53 dei New Jersey Nets e successivamente di Torino e Milano, avrebbero potuto opporsi al talento straripante di Andersen e Lavrinovic, alla brillantezza di Moss che bilancia l’opacità di Mc Calebb. Lo abbiamo evocato tramite il collega giornalista Alessandro Cibrario, guardia di talento nelle serie B e C piemontesi degli anni Novanta, già compagno del marchese Della Valle a Carmagnola (l’abbiamo ‘retrocesso’ da marchese a conte, nel precedente articolo, per un artificio letterario e perché Carmagnola era terra di conti e non di marchesi), che ci ha edotti del fatto che Darryl Dawkins da Orlando, Florida, vive attualmente come una specie di Marcellus Wallace, il gangster che domina la Los Angles di Quentin Tarantino in Pulp Fiction.
Circola per le strade della dorata Florida a bordo di una Limousine bianca, l’unica auto che effettivamente ne può contenere l’ingombro, vestito con impeccabile abito bianco ed autista munito di guanti bianchi. Lo fa nella realtà, mica nella finzione cinematografica. L’abbiamo sperato sino alla fine, vedendo Shermadini e Marconato soccombere al cospetto della maestosa prestazione dell’australiano, che sancisce- e questo è il particolare più doloroso – la vittoria dell’aristocrazia dell’oro bancario senese su quella del sangue canturino. Darryl Dawkins da Orlando, ne siamo certi, avrebbe indossato in tutta fretta i suoi pantaloncini (…) taglia XXXXXL e attentato alla stabilità del canestro del lussureggiante pala Olimpico, capace di regalare un colpo d’occhio affascinante nel corso della finale. 
Volendo ragionare per iperboli, diciamo tuttavia che vince Andrea Trinchieri, il quale conferma il suo carattere di visionario. Vince Trinchieri nel senso che le Final Eight decretano il riscatto di Milano. Chi c’era sabato al Pala Olimpico di Torino tra i 7mila degli spalti, o chi ha visto il match su La7 (magari attirato da Jeanene Fox), ha colto chiaramente che la lunga traversata nel deserto di Scariolo è finita: Milano c’è, ricompone i tasselli di un mosaico tecnico-tattico finalmente definito. Noi non diremo, come molti hanno paventato, che i fischi arbitrali durante i due ultimi possessi hanno condizionato un match la cui inerzia pendeva ormai chiaramente sul versante dell’Olimpia. Trasposto nell’oggi, diciamo che l’infrazione di 5 secondi sanzionata a Bremer e l’incertezza dei fischietti sull’ultimo possesso senese hanno evitato di commettere il reato di lesa maestà nei confronti di Siena e di Ferdinando Minucci, che dalla panchina è capace di lanciare occhiate gelide e intrise di veleno intimidatorio. Vince Trinchieri e vince Sergio Scariolo, che nella conferenza stampa di sabato ha palesato un equilibrio, una sportività e un carisma che equivalgono a un messaggio: Milano è tornata, signori, tutti in carrozza. Nulla sarà più come prima, se n’è accorto anche Pianigiani nonostante la sua prestazione (retorica e dialettica) abbia tralasciato questo aspetto e sia risultata meno brillante. Poi non c’è dubbio che contro la Siena di ieri, diciamocelo pure, avrebbe faticato anche il Cska di Kirilenko e dei petrolrubli.
Cantucky esce dalla quarta finale consecutiva ed è già alla vigilia della sfida chiave di Eurolega col Barcellona, che giovedì richiamerà al Pala Gladiatori di Desio più di seimila nobili villani di sangue bianco blu. Noi ci affidiamo sereni a Gianluca Basile, esortandolo a vestire – come contro il Caja Laboral o lo Zalgiris – i panni di novello Catilina. Che disse: mi sono assunto, com’è mio costume, la causa generale dei disgraziati. La nostra battaglia punta a ridestare la grandezza di Roma e dell’Impero, quindi anche di Cantù. Servirà farsi largo col ferro e il fuoco, il sudore e all’occorrenza il sangue. Poi a coach Trinchieri toccherà pensare al campionato, che la riscossa di Milano – siamo certi, gli Armani boys cresceranno ancora – rende ancora più impervio. Ricorriamo al pensiero del sommo generale cinese Sun Tzu e all’Arte della Guerra, su cui torneremo spesso: Sun Tzu ammonisce che chi in cento battaglie riporta cento vittorie non è il più abile in assoluto; al contrario, chi non dà nemmeno battaglia, e sottomette le truppe dell’avversario, è il più abile in assoluto.

Fabrizio B. Provera, da Torino (20 febbraio 2012)

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