Danilo Gallinari da Corleone

13 Gennaio 2010 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
Ci sono cattolici che non hanno mai visto il Papa o musulmani mai stati alla Mecca. Ecco, noi fino a 15 giorni fa non avevamo mai visto una partita NBA dal vivo sul suolo americano. Solo perline colorate per selvaggi: amichevoli italiane, da quella memorabile di Julius Erving e soci nel 1981 a Milano fino al recente Live Tour romano, esibizioni individuali (la più divertente quella di un giovane Shaq, la più triste quella dell’ultimo Iverson, la più fredda quella di qualche anno fa di MJ) e poco altro. Fino a quando al Garden abbiamo visto i Knicks soccombere di fronte agli Spurs. Al di là di quello che accade in campo, reso bene anche da Sky, Sportitalia e dall’amato (anche se anticamera del divorzio) League Pass di nba.com, ci hanno colpito diverse cose che proviamo ad elencare per confrontarci con la ‘prima volta’ di tutti.

a) Il pubblico non è passivo come sembra dallo schermo, anche se New York è di sicuro una delle città NBA con più ambiente: a detta dei frequentatori live, agli antipodi (a parità di squadra) sta Miami.
b) Il reddito generato dall’evento, a parte quello da biglietti venduti, è concentrato in poche ore. La partita era alle 18, ma i cancelli sono stati aperti solo lle 17. Non solo: due minuti dopo il fischio finale (verso le 20 e 15) non c’era un solo negozio o bar aperto all’interno dell’impianto. Questo significa che il milione di dollari medio (e New York è di sicuro sopra la media) fra biglietti e indotto generato da una partita di stagione regolare è tutto concentrato in quelle tre ore. 

c) Il merchandising non è un falso mito. Nei dintorni del Garden non ci sono bancarelle abusive o, peggio ancora, ‘ufficiose’ e tollerate. Non che negli Stati Uniti manchino criminali e contraffattori di marchi, però magari si sono messi d’accordo per emigrare di fronte agli stadi italiani. I negozi ufficiali sono pienissimi di gente che compra sia prima che durante la partita, cosa che fa storcere il naso a noi ma non al ragioniere dei Knicks (forse è lo stesso dell’impianto, essendo la famiglia Dolan proprietaria di tutto). Cose acquistabili ormai in tutto il mondo con un semplice click, peraltro.
d) Il Madison Square Garden non è il tipico impianto NBA, per la sua collocazione cittadina (già l’IZOD Center di East Rutheford, a cui magari dedicheremo un altro articolo, sembra su un pianeta diverso) e per il suo catalizzare gente non sempre focalizzata sull’evento. All’esterno si presenta come una sorta di palazzo-centro commerciale, all’interno è grande ma non dispersivo. Da monomaniaci abbiamo visitato solo la libreria della catena Borders, per comprare cinque volumi che avremmo potuto ordinare anche dall’Italia. Un contributo all’esistenza di luoghi di socializzazione.

e) Inutili le elucubrazioni sulla stagione dei Knicks (rischiano seriamente di andare ai playoff, nonostante tre quarti della squadra giochi solo per le statistiche personali ed il prossimo contratto) e degli Spurs (Jefferson non sta spaccando come sognavamo, dei tre grandi solo Parker ha ancora fuoco dentro), secondo le peggiori tradizioni la partita ha bordeggiato lo spread previsto dai bookmaker ed è stata risolta da alcune fiammate di Ginobili.
f) Bravi gli animatori del pubblico, geniali riciclatori di giochi da scuola elementare (il migliore è quello musicale, con una poltrona di meno del numero dei concorrenti e la corsa a sedersi quando la canzione si stoppa) e più coinvolgenti delle classiche ballerine che anche qualche squadra europea ha provato a trapiantare nelle nostre ghiacciaie. Di varia estrazione il pubblico, anche quello con il vassoio in mano non sembrava poi così disinteressato alla partita. La pioggia natalizia di ditoni a Los Angeles è stata la classica eccezione, nessun problema nonostante una inaspettata moltitudine di tifosi di San Antonio. Sparsi ovunque, non radunati sotto tristi striscioni (non ne abbiamo visto nemmeno di allegri e ‘simpatici’: che meraviglia!). Abbiamo mancato di un niente una delle magliette lanciate con la catapulta.
g) Da pagatori di biglietto non abbiamo rinunciato alla vicinanza della tribuna stampa, in modo da farci venire qualche idea. Nessuno aveva sciarpe, cosa che purtroppo non si può dire della realtà cestistica italiana (l’anno scorso al PalaSclavo di Siena abbiamo contato una fila di ‘giornalisti’ tutta con segni distintivi del Montepaschi, e non erano di Mens Sana Channel), tutti stavano lavorando o almeno davano l’impressione di farlo.

h) Danilo Gallinari piace anche ai non italiani, per mille motivi. Oltre ad essere forte dà l’impressione di avere grandi margini (cosa che non si può dire di David Lee, nonostante le buone statistiche) e di poter far parte di una squadra vincente di cui il famoso ‘progetto Walsh’ (uguale a quello di almeno altre quindici franchigie: avranno tutti qualche regista o rapper amico di campioni?) prevede la costruzione nell’estate 2010. E’ bianco, e dove non arriva il razzismo arrivano il marketing e l’identificazione. E’ penalizzato dal gioco attuale di D’Antoni, che lo obbliga a stazionare vicino all’arco da tre senza poter mostrare tutto il suo bagaglio tecnico. E’ comunque italiano, alla fine i soliti stereotipi vanno cavalcati con ironia. Non è un caso che lo speaker del Garden (e non solo del Garden, quando dalla tivù si riescono ad ascoltare i rumori di fondo) il più delle volte pronunci il suo nome con un accento siciliano da ‘Padrino’ di Coppola o da Tony Sperandeo: ‘Danilo Gallllinaaaaaari…’. Non è un caso, a meno che la musica americana abbia come riferimento l’Equipe 84 e Maurizio Vandelli, che un canestro di Gallinari sia stato sottolineato da alcune battute di ‘Tutta mia la città’. Bella canzone, ma non esattamente famosa nel mondo come Yesterday: probabile il ‘consiglio’ del ragazzo lodigiano. Mentre non crediamo che Ron Howard, decine di film come regista ma nell’immaginario collettivo Ricky Cunningham per sempre, abbia gradito la sigla di Happy Days come colonna sonora della sua inquadratura a bordocampo.
i) Conclusione? La troppa attesa, condita dai mille racconti di colleghi e conoscenti, ci ha tolto un po’ di entusiasmo puro. Ma non la certezza che la NBA sia il più grande spettacolo del mondo, liberamente ispirato allo sport più bello.
Stefano Olivari
(in esclusiva per Indiscreto)

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