Cinque anelli al naso

29 Gennaio 2008 di Stefano Olivari

1. Il calcio olimpico non ha mai davvero trovato una sua identità: da torneino per pochi intimi a vero campionato del mondo (a Parigi 1924 ed Amsterdam 1928, quando vinse l’Uruguay di Scarone, Nasazzi, Andrade, eccetera), per diventare esibizione da dilettanti di Stato e finti studenti (fino a Mosca 1980) con le nazionali dell’Est Europa quasi sempre ovvie dominatrici, poi sfogo per le nazionali B (LA 1984 e Seul 1988) ed infine ibrido para-giovanile: come si potrebbe definire altrimenti una selezione di fatto di Under 24, con oltretutto tre fuori età? Ma il vituperato calcio serve più al movimento olimpico rispetto a quanto i cinque cerchi servano a Blatter: per questo anche a Pechino il pallone farà il suo bagno di folla, sentendosi malsopportato da fiorettisti e arcieri. Degni di esistere quanto i calciatori, che però non hanno colpa del fatto che milioni di persone li vengano a vedere ogni settimana. Tornando all’Olimpica, in ogni paese qualificato la discussione sui fuori quota da convocare appassiona tantissimo, tanto è vero che il profilo delle convocazioni è sempre alto. Solo in Italia la cosa è sempre stata vista come una scocciatura. Tranne quest’anno: con tanti big che non andranno all’Europeo Casiraghi ha sentito una pressione insopportabile da parte della Figc ed ha parlato chiaro come soltanto chi non ha padrini può fare. Solo giovani e gente che si è guadagnata questa qualificazione, in estrema sintesi, senza gente in cerca di un palcoscenico senza rischi (visto che nessuno ha mai fatto processi per un fallimento olimpico). Già, perché quest’anno anche per gli italiani l’Olimpiade potrebbe diventare un affare. Chi in agosto sarà libero da impegni, senza avere l’Europeo sulle gambe, lo sanno tutti: Totti e Nesta per volontà propria, di sicuro almeno uno fra Del Piero e Cassano. E almeno una punta delle tante che non entusiasmano Donadoni ma hanno una dimensione internazionale: Lucarelli, Gilardino, Rocchi, forse Inzaghi. Insomma, è realistico che l’Italia olimpica si rechi a Pechino con un’immagine mediatica superiore rispetto al passato, con tutto quello che ne consegue in termini pubblicitari. Per questo Abete si è infuriato per davvero con Casiraghi: prima di tutto perché è uno dei pochi con cui si può davvero infuriare, essendo un’eredità dell’era Guido Rossi e non avendo grandi sponsor (Donadoni almeno ha la non ostilità del mondo Milan-Mediaset), e poi perché per la prima volta l’orientamento del Coni sembra quello di avere un profilo calcistico alto. Un po’ per le ragioni commerciali di cui si è detto (ma che in Cina sfondi il merchandising ufficiale la vediamo difficile) e molto per il basso profilo di altri sport di squadra, dal basket inesistente alla pallavolo ancora in forse. Sia Totti che soprattutto Nesta hanno dato qualche segnale positivo, probabilmente solo di cortesia, ma è evidente che il loro impiego potrebbe passare solo da un fallimento europeo degli altri: con Donadoni ancora in sella non sarebbe possibile un recupero che poi dovrebbe necessariamente proseguire anche nella nazionale maggiore di Lippi o Ancelotti. Del Piero direbbe sì con entusiasmo anche al doppio impegno, mentre il neo-umile Cassano non direbbe no. Abete in realtà sogna convocazioni più mediatiche che tecniche, chi pensa di interpretare il suo pensiero sta facendo circolare il nome di Paolo Maldini, che ha già annunciato il ritiro ma che a 40 anni avrebbe un senso anche sportivo. In realtà il bar si dovrebbe arrestare pensando al fatto che almeno una fra Juve e Milan dovrebbe fare il turno preliminare di Champions. Previsioni? Con il Milan quarto diremmo Maldini, De Rossi e quello fra Cassano e Del Piero che non andrà all’Europeo.

2. Mentre scriviamo non sappiamo che fine farà il ricorso del presidente del Palermo Maurizio Zamparini per farsi dare il tre a zero a tavolino nella partita con la Roma, vista l’influenza sul risultato dell’Olimpico di un fattore esterno come il ragazzino Gianluca. Raccattapalle lesto a posizionare il pallone sul calcio d’angolo in modo che Taddei potesse batterlo a difesa schierata male. La facile previsione è che il ricorso finirà in niente dal momento che il raccatapalle non è un fattore esterno, come potrebbe esserlo una bomba lanciata dalle tribune, ma una figura prevista dai regolamenti e dalla casistica. Insomma, la sua posizione è stata valutata male come magari quella di un attaccante in fuorigioco di cinque metri. Trascurando per una volta l’aspetto mediatico (quello che a Palermo sarebbe stato trattato dai giornali nazionali come un piccolo mafioso a Roma diventa un simpatico monello, se non un mini-eroe), bisogna dire che il vero problema non è solo il posizionamento del pallone, ma il fatto che per nessun motivo queste figure necessariamente di parte possono superare i cartelloni pubblicitari: nel caso sta all’arbitro farli allontanare, segnalando la cosa al dirigente della squadra ospite preposto ai rapporti con la terna. E’ bene anche ricordare che se il pallone è fuori campo ma non oltre i cartelloni pubblicitari sta ai giocatori recuperarlo, visto che in teoria non dovrebbero esserci ostacoli umani se non eventuali sostituti che si stanno scaldando (ma anche loro se disturbano possono al limite essere espulsi). Stiamo evidentemente parlando di un mondo ideale, visto che nel novanta per cento dei nostri stadi i raccatapalle sono provocatori più o meno indottrinati dalle società, che rallentano o velocizzano le rimesse ed i corner a seconda del risultato, con l’aggravante di essere quasi sempre non tifosi da bar ma giovani calciatori del vivaio. Ci sta, insomma, che al giocatore di una squadra in trasferta che sta perdendo (pensiamo al Pagliuca sampdoriano a Napoli) saltino ogni tanto i nervi, così come al suo presidente. Buttandola sui massimi sistemi, se l’International Board introducesse il tempo effettivo non ci sarebbe più bisogno dei raccatapalle. Con un biglietto omaggio starebbero in tribuna, sognando di essere furbi come i loro idoli ma senza imitarli fin da subito.

3. Nonostante il suo scadente livello medio, la serie A continua ad essere piena di motivi di interesse: l’Udinese che ancora non ha mollato (il calciomercato vero non è ancora iniziato) e la Fiorentina che vince le partite che deve vincere stanno facendo venire brutti pensieri a Milan e Juventus. Soprattutto ai bianconeri, per i quali un quarto posto nell’ipotesi non fantascientifica che il Milan vincesse la Champions significherebbe Coppa Uefa e soldi limitatissimi. Solo così si spiegano, per una squadra che sta facendo comunque bene, due mosse che sembrano dettate dalla disperazione come l’ingaggio a termine (giugno) di Gugliemo Stendardo, strapagando il prestito ad un felicissimo Lotito, ed il complicato acquisto di Sissoko per una cifra da amatori: 11 milioni e 4 anni di ottimo contratto (2,5 netti a stagione) per un centrocampista di sostanza di cui il Liverpool voleva in ogni caso liberarsi per motivi caratteriali ma che è comunque un giocatore vero. Lo prova il fatto che sia Benitez che Ranieri dopo averlo avuto al Valencia lo abbiano rivoluto a Liverpool ed alla Juve: entrambi hanno tentato di disciplinarne la forza (in qualsiasi partita del maliano oltre ai palloni recuperati impressiona il numero di falli) con risultati alterni, ma di sicuro Sissoko rispetta la moda europea di avere un decathleta nero in mezzo al campo. Essien, Diarra, Touré, eccetera, con l’Italia finora felice eccezione con i suoi playmaker, da Cambiasso a Pirlo, e le sue sintesi alla De Rossi. In ogni caso la Champions ed i relativi introiti condizionano così tanto i campionati nazionali che anche una Juventus, al di là della famiglia che ha alle spalle, è costretta a guardare soltanto all’oggi. Non è un caso che a luglio arrivi a costo zero Mellberg, bravo ma non esattamente un giocatore di prospettiva. Nei dibattiti più seriosetti ci si chiede se oggi ci sarebbe il tempo di lanciare in prima squadra un Paolo Maldini 17enne. Non c’è la controprova: un Criscito ventenne sicuramente no. Suonano comunque ingenerose le critiche a Cobolli Gigli e Blanc perché non spen

dono: come se ci volesse un genio a usare soldi messi a disposizione da altri. Per comprare i giocatori avendo dietro Moratti o Berlusconi, per non parlare del Sensi del recente passato e di chi ha rovinato grandi aziende atteggiandosi anche a vittima genere ‘mi hanno rubato il cuore’, basta un modesto direttore sportivo. Per vincere avendo meno (ma non tanti meno) soldi a disposizione degli altri ci vogliono Moggi, le sue squadre satellite e le sue sim. Insomma, prendetevela con gli Agnelli-Elkann: quelli che non sapevano cosa stessero combinando i loro dirigenti, notoriamente neolaureati che alla Juve avevano trovato il primo impiego. Solo in Italia poteva passare per buona e storicizzata un’idiozia simile, tanto che siamo d’accordo con Del Piero: con l’Avvocato vivo tutto questo non sarebbe successo. Proprio nel senso che intendeva l’uomo marketing bianconero, cioé che dirigenti sportivi e giornali avrebbero insabbiato tutto sul nascere. E magari lo stalliere, per usare la metafora agnelliana, sarebbe ancora lì…

4. Fra le mille verità ovvie di cui ci pasciamo una delle più ovvie è che l’allenatore incida ormai pochissimo sulla squadra: a livello tattico una formazione ben costruita da una società organizzata potrebbe essere guidata non diciamo da chiunque, ma da qualunque buon professionista preso a caso sì. Per certe zone, scudetto o salvezza che siano, occorrono poi doti umane particolari, ma sul piano tattico non è che Mancini o Ancelotti ne sappiano più di Pillon o Vavassori. Una verità che ci è venuta in mente nel recupero di Cagliari, che ha dato a Ballardini una gioia insperata e a Cellino il pretesto per un grande show. Quest’anno come non mai i cambi in panchina hanno dato la famosa ‘scossa’, quella che nel recente passato raramente si verificava e che faceva scrivere editoriali contro la fretta dei presidenti, che non lasciano il tempo di lavorare, che non hanno rispetto, eccetera. Il campionato in corso sta dimostrando che cambiare o non cambiare è esattamente la stessa cosa, se la squadra è costruita male. Dicevamo di Ballardini, che ha finalmente dato un minisegno di vita dopo le gestioni Giampaolo e Sonetti. Con Guidolin il Palermo è leggermente meglio che con Colantuono, Camolese sta facendo benissimo (non solo in confronto a Orsi) a Livorno, Ulivieri senza inventare niente sta facendo meglio di Ficcadenti, Beretta meglio di Mandorlini, Malesani meglio di Cagni. Non affanniamoci a trovare una logica: il vecchio e il giovane, il tradizionalista e l’innovatore, l’uomo da campo ed il fighetto sono categorie trasversali e dai confini ormai sottili. Tutti uguali, quindi, come sosteneva il Moggi direttore generale (Lippi era una sua creatura, mentre Ancelotti e Capello gli furono imposti quando lui vagheggiava soluzioni ‘della casa’ tipo Del Neri o De Canio) e sostiene il Moggi opinionista? A parte qualcuno perfetto per un determinato ambiente, tipo i già citati Ancelotti e Mancini, sì…

5. Se Gianni Brera fosse ancora vivo magari avrebbe applicato una delle sue teorie etnico-sportive a Potenza Picena, il comune in provincia di Macerata che ha dato i natali agli avi di tanti campioni: Camoranesi, Cicinho, addirittura l’indimenticabile Gabriela Sabatini. Che poi questi campioni avessero bisogno del passaporto italiano per motivi professionali (i calciatori) o personali è un dettaglio. Da poco il comune dei campioni ha regalato all’Italia un nuovo patriota: Paulo Cesar, esterno brasiliano che gioca nel Tolosa dopo grandi promesse giovanili in patria, che ha preso la cittadinanza della terra dei cachi. Non per sangue (o presunto sangue) suo, ma della moglie che pur essendo brasiliana ha due nonni originari di Terni. E siccome la domanda si può fare in qualsiasi comune, la scelta è caduta su Potenza Picena come avrebbe potuto cadere su Milano o Cagliari. Al di là della convenienza di Paulo Cesar (magari in privato recita ‘Eran trecento, giovani e forti…’, quindi bando alle facili ironie), volevamo solo sottolineare come nello sport il passaporto sia diventato una barzelletta, così come l’Unione Europea che sfiora Mongolia e Senegal e tutti gli altri steccati che si basino su pezzi di carta ed appartenenze burocratiche. L’unica appartenenza che conta è quella reale, quella sportiva: non è un caso che la ‘formazione’ sia l’unica barriera contro un calcio indifferenziato ed in definitiva senza identità. Poi Jimenez risulta italiano e Chiacig no, sono ovviamente casi limite, ma l’unica difesa anche da un punto di vista legale non può che essere questa. Il resto è legge del più furbo.

(appuntamento a martedì 5 febbraio 2008)

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