Cadel in piedi

28 Luglio 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
Chissà come descriveremo, tra qualche anno, la Grande Boucle 2011. Gara liquida, vera, inafferrabile, la testimonianza di un tempo del ciclismo che sta perdendo la robotizzazione dell’era armstronzesca.  La pedivella rinnova se stessa, il suo rito magico, consegnandoci un’idea antichissima; ovvero che è letteratura in divenire.
Se Hemingway avesse conosciuto Cadel Evans magari lo avrebbe inserito in “Addio alle armi” come fece con Bartolomeo Aimo… L’australiano indossa il giallo parigino dopo una corsa strepitosa: nel dì dei tre mostri, dopo aver perso l’attimo lasciandosi scappare Schleckino, vince il Tour con una fenomenale cronoscalata del Galibier. Quella progressione orgogliosa, al pari della botta decisiva a Mendrisio 2009, è il manifesto programmatico del campione di Katherine: sposato con un’italiana (Chiara Passerini), cittadino del mondo che ha creduto fortissimamente in uno sport pulito anche quando, un decennio fa, la situazione sembrava drammaticamente cristallizzata.
Cadello Evani, atleta che corre tutto l’anno, agguanta il sogno della vita a cronometro ma non dimentica:
le prime parole sono nel ricordo di Sassi, il suo preparatore che non c’è più. L’Aldo, quando raccontava dell’aussie, parlava dell’eccezionale resistenza organica del soggetto; un bipede nato per le fatiche disumane dei Grandi Giri. Amarcord, il primo vincitore down under arriva trent’anni esatti dopo Phil Anderson, il precursore (campione strambo e indimenticabile) che inaugurò la fresca tradizione dei canguri su due ruote.
Festa di Luglio che ha rispettato la tradizione del ricciolo in senso antiorario;
Pirenei interlocutori, deludenti, e Alpi deflagranti, di una bellezza selvaggia, primordiale. Prima però c’è stata, decisiva per le dinamiche dell’ultima settimana, la gara dei bounty-killer e degli schianti. Lo stereotipo ignorante recita la favola della vernice insignificante, invece in questo Tour è stato fondamentale proprio l’approccio. Non è solamente l’agonismo esasperato del gruppo, ma una questione di sopravvivenza nella giungla bitumata. Il bollettino di guerra l’ha recitato, sconsolato, il direttore tecnico della corsa Jean-Francois Pescheux, al termine della quinta tappa che arrivava a Cap Frehel: “Sul percorso c’erano centoquarantasette passaggi pericolosi, trentanove rondò, quattordici restringimenti, due rallentatori, un passaggio a livello, sessantacinque terrapieni centrali, l’ultimo a 400 metri dal traguardo…”. E sulla celeberrima pianura francese avremmo qualche riserva: ricordate la frazione piattissima di Chateauroux, l’ennesima vinta da Cannonball Mark? I mini computer sulle bici indicavano, al termine della fatica, 1500 metri di dislivello complessivo…
Il pomeriggio più lungo è verso Saint-Flour, sulla strada si verificano gli accadimenti che segneranno la competizione:
in una curva, sul bagnato, cadono tra gli altri Vinokourov e Van den Broeck. Cioè il corridore con la cazzimma per stravolgere la contesa, il kazako, e lo scalatore più in forma del plotone, il fiammingo. Qualche chilometro prima, ma senza le conseguenze sfortunate dei due, Alberto Contador aveva assaggiato, per l’ennesima volta, l’asfalto transalpino. Il gruppo si ferma, per un quarto d’ora, spaventato dallo scenario: davanti, in fuga, Thomas Voeckler ha l’opportunità della vita; prova a fare il Walkowiak che non ti aspetti. La follia viene completata da un’auto pirata che tenta di uccidere Flecha e Hoogerland: Johnny Cavallopazzo, con una ferita che sarà colmata con trentatre punti di sutura, prosegue piangendo verso il traguardo. Non riusciamo a immaginare cosa sarebbe successo se fossimo stati al Giro o alla Vuelta…
I dragoni, i predatori da classica, hanno caratterizzato almeno due terzi di Tour:
Gilbert strapotente e generoso, forse per festeggiare il contratto multimilionario (Astana o Bmc?), l’iride splendente di Thor Hushovd e il talento ancora inesplorato del prodigioso Edvald Boasson Hagen. Si sale verso il luogo più bello della terra, la Casse Desérte, quando Andy Schleck compie l’impresa atletica più rilevante della propria, ancor giovane, carriera. Complice lo stato di cottura avanzato dell’armada iberica e l’eccezionale apporto, nella valle ventosa del Lautaret, di Maxime Monfort, il lussemburghese arriva a un paio di minuti dall’Eldorado dei Campi Elisi. Personaggio complesso, dal potenziale quasi illimitato, continua a perseverare in un rapporto simbiotico, penalizzante, col fratello Frank: Torcicollo Andy, per la disperazione dei suoi diesse, non ha ancora capito che, proseguendo nella commedia, potrebbe fare la fine (biblica) di Abele al cospetto di Caino. Inspiegabile la sua ritrosia nell’alimentare la fuga del torero Alberto (splendido, fuoriclasse anche con la sconfitta addosso) nell’epica Modane- L’Alpe d’Huez, soprattutto dopo l’incidente meccanico paperinesco di Cadello. Il problema, non solo suo, è di prospettive: corre e vive in funzione del Tourannosauro e non è abituato al fremito, all’ispirazione, dell’improvvisazione. Che si acquisisce sprecandosi (…) nelle gare in linea, limando le ruote sui sentieri scomodi del Nord Europa o nelle brevi corse a tappe in giro per il mondo.
Pubblico ovunque, pazzesco nelle ultime giornate, calamitato dall’effetto T-blanc e dall’incertezza della sfida: la rinascita del movimento dei cugini è evidente ed annunciata da qualche stagione.
Tralasciando considerazioni velenose sui benefici sanitari (…) dello status di Continental della banda Bernadeau, è terminato l’oblio degli ultimi due lustri. Aspettavamo Pierre Rolland da almeno un biennio e finalmente ci ha mostrato quel che vale; con lui e Coppel, come soggetti adatti alle tre settimane, segnaliamo anche il giovanissimo (ventuno primavere) Thibaut Pinot, grimpeur de luxe che fece mirabilie al Val d’Aosta 2009. E poi, in ordine sparso, Sicard, Jeannesson, Geniez, Le Bon, Gallopin, Roux, Vichot: qualitativamente e quantitativamente la migliore linea verde con gli australiani.
Torniamo dal Tour con la consapevolezza che il Principe Cunego potrebbe rivincere un Giro d’Italia e poco altro.
Noi, con gli spagnoli, per due decenni avanguardie esasperate, rischiamo di diventare Terzo Mondo; aspettando una semina nuova, confidiamo nel solo Nibali per far passare la nottata. Lo Squalo, alla luce dell’Ivan Basso declinante visto sulle cime alpestri, diventa l’unica autentica speranza gialla: il guaio tricolore è il sistema giovanile, lo scrivemmo in tempi non sospetti, plagiato su un campionismo comodo e furbo. Troppi diciottenni che vincono ma non imparano il mestiere: invece i francesi, appresa la lezione e fiutato l’avvenire, hanno (ri) costruito una scuola. Attraverso il Progetto Federale hanno convogliato forze fresche e idee nuove; borse di studio per far studiare gli atleti e la consapevolezza che, per produrre il fenomeno che vince il Tour o la Sanremo, è necessario innaffiare le altre specialità. Quindi maggiori attenzioni verso la mountain bike, la pista, il ciclocross, la bmx; indispensabili per arricchire il corredo genetico e le esperienze di un corridore ambizioso. Anche perchè, fino almeno ai sedici-diciassette anni, si devono evitare le insidie del traffico folle e congestionato.
Tutto il resto è meraviglia. Abituati ad osservare gli sfregaselle sulle salite più impegnative, per vederseli sfilare a pochi centimetri dal proprio spazio vitale, abbiamo accettato (per una volta) di attenderli al traguardo. Passato il circo, la carovana (indescrivibile la sua grandeur), ci si concentra sul pezzo forte. Il pubblico percuote le scritte pubblicitarie nemmeno iniziasse una danza tribale, cominciano le vetture e poi le staffette motociclistiche. Quando passano quei curiosi esseri, magrissimi e con la pelle bruciata dal sole, il frastuono, l’urlo, copre tutto. Quella sinfonia di suoni, ben oltre l’Intonarumori di Russolo, produce una vibrazione che ti trapassa il corpo. Il rombo del Tour si infila in mezzo tra i due assoluti della natura: il temporale dal

cielo, il terremoto dalle viscere della terra. Il ciclismo, dal vivo, si guarda anche con le orecchie.
Terminiamo l’anabasi con le parole, sante, di un califfo della BiciItalia che fu.
La prima pagina de La Gazzetta dello Sport del 2 Luglio 2011 è il manifesto del basso livello culturale sportivo italiano. Il calcio è in vacanza ma gli altri sport non riescono a sostituirlo: persino una foto, da spiaggia, con Mancini in mutande da bagno e tanti suoi amici, ex calciatori più o meno famosi, riesce a battere il ciclismo con il Tour in partenza, Wimbledon al weekend finale, le moto al Mugello… Insomma non c’è speranza, meglio lo spot del gossip calcistico, del vip del pallone, della voce di mercato dello sport vero e proprio. E chi lo spiegherà poi all’Italia vera, quella che alla fine si arrabbierà pure vedendo questa ricchezza esibita, facile, tra Sardegna e Formentera, quando la vacanza è un miraggio per chi fatica ad arrivare alla fine del mese…? Almeno la fatica di chi pedala non corre il rischio di essere male interpretata… (Maurizio Fondriest su Facebook)

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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