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Batte forte, l’ultimo Sanremo delle Lollipop
Daniele D'Aquila 19/02/2015
Periodo di giornate della memoria, in cui è giusto e doveroso ricordare, perchè pericoloso sarebbe dimenticare, delittuoso sarebbe ripetere. Febbraio, tempo di Carnevale, tempo di Torneo di Viareggio, tempo di Sanremo, tempo di Festival della musica italiana, tempo delle infinite discussioni sul destino di essa, con i giannizzeri dell’italica melodia schierati in difesa del suo valore. Eh sì, perchè non ci stiamo alle solite sbrodolate su quanti siano fighi Jimi Hendrix, Bob Marley ed Edith Piaf! Anche il contesto sanremese ha dato tanto alla storia della musica, vuoi mettere il valore artistico di prodotti come gli Albano & Romina da Novella 2000, i Ricchi & Poveri che rivalutano il trash di certe rumene scosciate dell’Eurovision Song Contest, Christian che negli anni Ottanta faceva a gara di permanente con gli agnelli persiani? Come non ricordare i tanti cippi miliari della storia della musica, come quando Anna Oxa inaugurò l’era dei fuseaux mostrandosi scandalosamente liscia e attillata come un manichino della Standa? Costretta dalla sartoria, si dice, ad una futuristica depilazione alla sudamericana (di quella che in Italia si chiama “alla brasiliana”, in Brasile si chiama “all’argentina”, e in Argentina si chiama….boh, a sto punto forse “all’italiana”…) che solo due decenni dopo verrà consacrata da Youporn.
E fortunatamente la tradizione continua ancor oggi, in questo paese in cui il tempo si ferma e chiunque può uscire di casa e toccare con mano il peso della storia con una passeggiata tra i Navigli di Leonardo, un aperitivo di fronte agli scavi romani, un’occhiata ai risultati del mecenatismo mediceo. Così oggi possiamo ancora godere dei Matia Bazar, criogenizzati per qualche decennio e scongelati ogni febbraio con un procedimento simile a quello della liquefazione del sangue di San Gennaro. Possiamo ammirare Arisa, una sorta di Orietta Berti 2.0 che potrebbe essere pronipote di Nilla Pizzi ma riesce ad esserne coetanea musicalmente. Alex Britti, che doveva essere il Robert Johnson italiano (“Sweet hoooooooome: Braccianoo!”…) e si è relegato anche lui ad animale da Festival come uno Zarr(ill)o qualunque. E poi gli Avion Travel, caspita, non dimentichiamo gli Avion Travel, se no la giuria di qualità cosa l’abbiamo invitata a fare? Con quello che si fanno fuori di buffet…
Aaaaaahhhhhhhh, la giuria di qualità, spocchiosissima invenzione sanremese che nelle intenzioni dovrebbe assegnare un premio morale per far giustizia del televoto in mano alla vecchietta che vota Berlusconi perchè rincoglionita da Rete 4 e al manovale con canotta macchiata che rutta di fronte alle tette delle vallette (ops, pardon, co-conduttrici, eh! Mica che poi la Boldrini si offende e mi riattacca un pippone su maschilismo e pari opportunità…). Giuria che per tale compito dovrebbe essere composta da musicisti, compositori, produttori, anche se col tempo i requisiti si sono allargati a parrucconi, vippame e imbucati vari. Si dice vi abbia fatto parte in passato anche Alba Parietti (intellettuale perchè in passato è stata fidanzata con un filosofo), ma riteniamo si tratti di perfida leggenda metropolitana atta a delegittimare l’istituto di tale giuria.
Comunque, tra tanti talenti ingiustamente sottovalutati dalla kermesse sanremese (lo so, kermesse non lo sentivate dai tempi della “Premiatissima” di Johnny Dorelli, ma se scrivi un pezzo su Sanremo ce lo devi mettere per forza, altrimenti scatta la tagliola dell’annonaria…) sarebbe il caso di ricordare quello che fu un vero e proprio spartiacque tra le dinamiche sanremesi dei discografici che farebbero impallidire la Calciopoli di Moggi e l’Era dei talent-show in cui un qualsiasi Emo con l’aria da triste sfigato scatena l’istinto di consolazione delle adolescenti conquistandosi il diritto di salire sul palco dell’Ariston (ormai ridotto praticamente ad un tinello in onore del nome, che a tanti di noi ricorda certe pubblicità anni Ottanta). Un vero e proprio fulmine a ciel sereno, che segnò la vittoria della televisione sulle accademie musicali, dei parrucchieri sugli insegnanti di canto, del silicone sulle corde vocali. Un fenomeno di costume che cambiò per sempre la storia non solo di Sanremo ma della musica stessa e delle sue dinamiche, doppiando il capolavoro compiuto da Malcolm McLaren coi suoi Sex Pistols.
Sì, stiamo parlando di loro: le Lollipop (qua ci vorrebbero i tuoni di sottofondo col nitrito di cavalli, come per Frau Blücher in “Frankestein Jr” di Mel Brooks….). Ve le ricordate le Lollipop, no? Al di là del nome, che risponde alla consuetudine italiana di considerare tutti più giovani di quel che sono con un retrogusto malizioso al limite della pedofilia (così capitò loro un nome che le fa apparire coetanee dei Gazosa anche se magari erano già in età da Calippo. Certo, “ecco a voi le Calippo!” suona meno bene…), vennero fuori da una mirabolante idea di quella fucina di cazzate che è Mediaset: Popstars! La trasmissione, forse il primo vero talent-show come lo conosciamo oggi, si poneva l’obiettivo di selezionare tra migliaia di aspiranti cinque ragazze capaci di cantare, ballare ed ammiccare con look accattivante e bella presenza, che formassero alla fine una girlband italiana, una sorta di Spice Girls all’amatriciana.
A condurre la trasmissione e fare da giuria un trio pazzesco caratterizzato da ruoli ben definiti: Diego Quaglia, il teorico esperto tecnico, Daniele Bossari, il vj che se ne intende, e Irene Ghergo, la strega cattiva (qui ci vorrebbero ancora tuoni & nitriti…). Fin da subito un trio così eterogeneo diede il via a situazioni imbarazzanti, tra Diego Quaglia che cercava un contegno, Bossari che sprizzava condiscendenza da tutti i pori per quelle povere ragazze, e Irene Ghergo che da talent-scout della produzione mostrava invece tutto il cinismo richiesto ai provinatori Mediaset. Memorabili quei siparietti in cui qualche ragazza magari sovrappeso chiedeva lumi su quanto pesasse il requisito estetico e mentre Bossari cercava di tranquillizzarla invitandola a pensare solo a cantare e Quaglia si dichiarava possibilista di fronte ad un’eventuale Ella Fitzgerald, la Ghergo interveniva in gamba tesa alla Roy Keane chiarendo subito che in una band di 5 ragazze quella cicciona non ci poteva stare.
La cosa bella è che da cotanta giuria esperta vennero via via eliminate pezzi di patacca nucleari, paradisiache ugole gorgheggianti, silfidi sinuose come farfalle, per selezionare alla fine cinque ragazze che a conti fatti non solo non erano tra le migliori ma forse erano addirittura tra le peggiori: cinque presunte popstar di cui a fatica si riuscirebbe a farne una prendendone due (invitiamo tutti ad indovinare chi siano le due dagli indizi che semineremo più avanti, in palio il Direttore a pranzo e a cena a casa vostra per una settimana gratis senza impegno). L’unico iter procedurale tipico di certi progetti commerciali che venne rispettato fu la caratterizzazione delle cinque personalità all’interno della band, ma andiamo con ordine alzando lentamente il sipario.
Dominique, la teen-mantide dark nel look e soul nel canto. Marta, la latina sexy da reggaeton, una sorta di Jennifer Lopez de noartri che stava alla star portoricana come Francesco Totti sta a Johan Cruijff. Marcella, la ragazza fantasy da saga degli elfi. Roberta, che fa sbavare gli amanti del tipo trans. Veronica, il maschiaccio da poliziottesco all’italiana.
Con tale Dream Team venne inciso il singolo Down down down, col quale si sarebbe dovuto provare l’alibi del limite linguistico della musica italiana ma in cui venne certificata l’opinabilità della glottologia a livelli mai raggiunti nemmeno dagli Oliver Onions, e molti fecero sarcasmo sul titolo ammettendo che la discografia italiana era in effetti giunta al punto più basso, ignorando come si potesse ancora scavare fino ad intravvedere Sanremo sul fondo del pozzo. Sì, perché per Sanremo 2002 venne composto appositamente un brano che, alla faccia della giuria di qualità e in barba al premio della critica, aveva l’unico scopo profondamente poetico di celebrare il percorso (???) delle Lollipop. Oh Dio, questo inizialmente, perché poi la tematica virerà con più imprevedibilità di una finta di Garrincha, ma non scopriamo tutto subito: andiamo con la telecronaca in differita, minuto per minuto, moviola e replay compresi.
Corre l’anno 2002, Ariston colmo in ogni ordine di posto, palco gradazione 4, tutto pronto, fischio d’inizio dell’arbitro, partiti! Come si può vedere dal video su Youtube, il gruppo annunciato da Pippo Baudo entra in scena mentre un agiografico arrangiamento di archi fa da stacchetto sul tema del successo Down down down. Baudo chiede subito un applauso d’incoraggiamento prima di riassumere la storia della formazione di questo gruppo definendole “figlie della televisione nate attraverso un concorso” ma guardandosi bene dall’entrare nello specifico riguardante la concorrenza (‘a Baudo, svejateee!!! Semo ner dumiladdue, Abberluscone s’è comprato tutta l’Italia, ‘n ce sta più ‘a cortina de etere!), dopodichè passa in rassegna le ragazze invitandole a presentarsi con nome di battesimo e, mentre l’autospeakeraggio scorre le formazioni in campo, il regista perfidamente stringe su una panoramica di piani americani che ci aiuta a rabbrividire per il look delle ragazze ideato, presumiamo, dalla costumista de “I ragazzi del muretto” vittima di nausee da sbronza.
Con un jeans attillato da cubiste di discoteca che, zampato verso le caviglie, ricorda immediatamente al datato pubblico maschile certi mignottoni anni Settanta della commedia scollacciata all’italiana, da sinistra verso destra, in piedi: Veronica, con indosso una blusa sbracciata multirighe arcobaleno in Technicolor che nemmeno Ottavio Missoni fatto di crack, e una pettinatura a metà strada tra Rod Stewart finito di pulire la cantina e un levriero afgano vittima di un temporale; Dominique, che con caschetto nero da moretta delle Charlie’s Angels sfoggia un’imbarazzante canotta a righette bianco-rosse da gondoliere di Venezia; Marta, che ha rubato la casacca da rugby al fidanzato ma dopo averla ristretta con un lavaggio. Di qui quell’ombelico che fa capolino…; Marcellina ina ina, che indossa la stessa casacca di Marta ma ha perso una manica in mischia per una ruck sulla linea delle 22 yard, e con una sparata di ciocche blu pettinate con un’esplosione di C4 al cobalto da far invidia a Araan Banjo e Sid Vicious, come una sorta di marziano che mischi Walt Disney e Tolkien in salsa cyber-punk; Roberta, con un toppino attillato caduto dalla stessa tavolozza di quello di Veronica, che sarebbe perfetto se sostenuto da adeguate curve invece che adagiato su una tavola da surf che lascia presagire un passato da centravanti del Corinthians.
Ovviamente tutte corredate da adeguate calzature zeppate, di quelle amate da certe ragazze che sbarcano a Milano il sabato, per un aperitivo trendy che le faccia sentire un po’ vip, per poi tradire l’aleatorietà dei propri stipendi appena una collega di tartina indigena le sfrega inavvertitamente la tomaia di tali preziosissimi calzari: “CIOOOOOOOO’!!!!! VARDA CHE ‘E GO PAGAE DUEZANTO AURI, SA?!…” Il risultato è che mai come in questo caso appare nella sua incontestabile adamantinità una delle regole marmoree della dottrina del costume da spettacolo: metti su un palco una paninara adolescente coi trampoli e l’effetto sarà simile a quello di un tirannosauro ubriaco. Diamine, stiamo parlando di Sanremo, un management più mirato sarebbe richiesto: non è che capiti sul palco dell’Ariston per sbaglio mentre stai cercando parcheggio!
Comunque dopo cotanta presentazione Baudo chiarisce che lo stacchetto iniziale era appunto del loro brano cavallo di battaglia ma sbaglia il titolo denominandolo “Down down”, in cui un “Down” è sparito ricordandoci quando Biscardi chiese ad un collaboratore di redazione di passargli “il fac” senza “esse” perché era singolare… Rotti gli indugi e presentato il direttore d’orchestra, Baudo lancia la performance e il panel in sovraimpressione ci illustra il titolo del brano: Batte forte, che immediatamente farà pensare ad un sequel di Bocca di rosa di De Andrè come celebrazione dello stakanovismo di una professionista del mestiere più antico del mondo, e attirerà da subito l’attenzione di intellettuali del mondo della cultura quali Vittorio Sgarbi, Tinto Brass e Silvio Berlusconi. Parte l’intro dell’orchestra e da subito si nota tutta l’ipocrisia sanremese: siamo al Festival, quindi deve esserci per forza l’orchestra d’archi, anche se subito dopo entra un ossessivo piciuàp piciuàp da campionamento di batteria elettronica, come nel più classico trash-disco-pop. Ma palla alle ragazze, osserviamo l’azione!
Comincia Marta, che fa subito l’imitazione di Jennifer Lopez, mossette parvenue-snob comprese, è ancora abbastanza intonata anche se paralizzata dall’emozione, occhio al testo: “E’ passato un anno e siamo qua…”. Poi arriva Dominique, sciantosissima, con movimento delle mani intrigante stile Patty Pravo, vocalmente sarebbe quella con mezzi migliori ma nel tentativo di gonfiare la voce da cantante soul perde di definizione nell’intonazione: “sotto i fari di questa realtà!…”. Ecco, secondo versetto del testo e siamo già all’autogufata, visto che dopo tale esibizione le Lollipop spariranno pressocchè dalle scene, per poi inventarsi una reunion nel 2013 (con quattro su cinque, senza Dominique) che è stata seguita con attenzione dal Direttore, da Paolo Morati e da Alvaro Delmo, ma che al momento sembra essersi arenata.
Arriva Marcellina saltellando, e mentre i bimbi a casa esultano illudendosi siano iniziati i Teletubbies lei accenna un “inseguendo strade dove chissà” che fa sbandare l’intonazione perdendo il salto d’intervallo nel momento dell’acuto, senza tra l’altro far capire al pubblico un cazzo della pronuncia. A quel punto si fa largo Roberta, che con la grazia venerea di Ivan Drago bofonchia un “fermeremo il tempo” con voce tanto insicura da rinnovare i dubbi sul significato del titolo “Batte forte!”: eh sì, perché siamo a malapena a metà della prima strofa e l’intonazione è già bella che irrimediabilmente andata a puttane! Veronica sfrutta la cortina fumogena del crescendo che porta al salvifico ritornello con cui le coriste ammortizzano il disastro, ma noi non riusciamo a distogliere l’attenzione dalla sua chioma tipo Megaloman che si alza da letto al mattino. Coretto e via con la seconda strofa.
Marta ha la parte più facile ma va apprezzata per come si aggrappa con le unghie all’occasione della vita “Storie che si incrociano e siamo qua…”; Dominique invece vuol strafare e soffoca la voce invece di liberarla, perdendo al contempo il controllo delle mani: da Patty Pravo cerca di passare a Mina ma finisce col sembrare Edward Mani di Forbice. Marcellina coerente con sé stessa passa al falsetto da cartone animato mentre Roberta crolla: il vibrato della voce diventa tremolìo da magone e si guarda attorno come per chiedersi dove cazzo sia capitata. Quando arriva Veronica la caciara è ormai dirompente e il pensiero va a quanto ci sarebbe stata bene in “Romanzo Criminale”, nella parte di una benzinaia della Magliana o una tassinara zona Stazione. Parte il ritornello che recita: “Batte forte inesorabile / Questo amore senza limite / Non passerà la voglia che ho di te”…..! Ehi, stop, ferma tutto: come “la voglia che ho di te”?! Ma non si stava celebrando la storia delle Lollipop?! “Te” chi?! Un ipotetico lui?! La musica?! La carriera?!
Non abbiamo il tempo di occuparcene perché a sto punto ci troviamo di fronte ad uno degli elementi thriller più importanti della nostra inchiesta. Attenzione, siamo tra il minuto 2:00 e il minuto 2:20, in pieno ritornello quando a “la voglia CHE HOOO DI TEEEEE” un fatto attira la nostra attenzione: il microfonista della RAI (aaaahhhhhh, gli statali difesi dai sindacati!!!) ha settato male i volumi dei microfoni, abbassandoli tutti per dar spazio alle coriste in un sussulto di orgoglio e dignità ma lasciando altissimo quello di colei che dovrebbe fare il controcanto, che così non solo sta coprendo la parte solista del ritornello ma sta altresì stonando indecorosamente. Alla ripetizione del ritornello, a “ora che ti ho dentro” (a ridaje coi doppi sensi…) al min. 2:30/2:35 la situazione peggiora ed è ancora più evidente, l’intonazione è sputtanata a tal punto che non si riesce nemmeno a capire chi sia il problema. I sospetti vanno dal miagolio di Marcella ad un tanto ipotetico quanto inspiegabile tentativo di falsetto di Roberta, e su questo retroscena agghiacciante sciama il ritornello mentre torme di gatti randagi si radunano sul marciapiede di fronte all’Ariston attratti da misteriosi ultrasuoni. In quel momento il nostro pensiero va alla nostra vecchia insegnante di canto, la cui cotonatura stile Rita Levi Montalcini ha un moderato sussulto per la tisana che le sta andando di traverso.
Siamo al bridge (o special, per usare un termine più pop e meno jazzistico…), inaugurato da Marcellina tra un Art Attack e l’altro col sostegno Vajont-style di Roberta, poi Marta fa la sexy appoggiandosi a Dominique che, dopo la tendina di Roberta, a quel punto, stufa dei compagni come Ibrahimovic, prende l’iniziativa alla Allen Iverson nel tentativo di mostrare che al di là del look da Victoria Adams lei ha studiato Aretha Franklin. L’assolo che piazza è ancora dignitoso, ha ripreso il controllo delle mani ormai a livello Mina, ma purtroppo viene ancora tutto vanificato dal controcanto del ritornello: Dottore, le stiamo perdendo! Arrivati all’ennesimo sguaiato “CHE HOOO DI TEEEEE” (min. 3:10) strani cecchini della forestale allertati dalla LAV si aggirano tra i palchetti più in alto del teatro, ma la produzione smentisce.
Arriva Roberta in quello che non si capisce se sia un secondo special, anche se per grammatica musicale è solo uno svisare sul tema, avanza agitando le gambe con la grazia di Godzilla confidando nella commozione dei vecchi bavosi in prima fila, sminchia l’intonazione meno che in precedenza e con un passo sensuale come quello del Frankestein Jr di Mel Brooks arretra per rientrare in fila. Il “CHE HOOO DI TEEEEE” meno peggio della performance chiude il ritornello, quando al min. 3.30 si entra in Zona Cesarini preparando il delirio: Dominique parte col suo secondo assolo, pure sto giro tiene la barra a dritta anche se nel tentativo di mostrare un po’ di grinta appare incazzata come Beppe Grillo quando uno del M5S si permette di dirgli “sì, però…”, finchè arriva il fatidico “CHE HOOO DI TEEEEE” coi sismografi giapponesi che urlano impazziti. Roberta scatta ancora verso la prima fila per consumare anche lei il suo secondo assolo, vocalmente ancora ancora tiene ancorchè travolgente come Enzo Biagi durante un editoriale, poi si lancia in due ancheggiamenti trascinanti come Nicoletta Orsomando che annuncia il telegiornale della sera. Rientra in fila per l’ultimo ritornello quando in piccionaia scoppiano le prime lampadine, all’ennesimo “CHE HOOO DI TEEEEE” i suoni lancinanti della misteriosa creatura celata dietro quel mefistofelico controcanto hanno definitivamente disorientato le compagne che ormai danzano a cazzo ognuna per i fatti suoi. La nostra vecchia insegnante di musica è ormai svaccata di traverso sul divano sporco di cenere, con le gambe a penzoloni e la vestaglia slacciata, una bottiglia di Jack Daniel’s in una mano e un acre tanfo di fumo nella stanza. L’esibizione è ormai completamente in vacca e gli ufologi americani segnalano strani movimenti nei cieli sopra Sanremo ma alla fine il ritornello volge finalmente al termine e la coda d’archi, dopo 4 minuti circa di straziante dramma, chiude il brano. È finita.
Ancora sgomenti per l’accaduto, sudati, in un atmosfera irreale, con lo sguardo perso nel vuoto, ci si guarda attorno, ci si cerca, si spera di incrociare uno sguardo per sentirsi meno soli, per dirsi che sì: è successo veramente, noi c’eravamo. Ma siamo sopravvissuti e un giorno lo racconteremo, magari ai nostri nipoti seduti sulle nostre ginocchia, con un fazzoletto rosso al collo, ed ogni anno ci ritroveremo per commemorare.
Intanto la vicina Capitaneria di Porto annuncia il disastro ecologico in atto: decine di maschi di balena arrapati spiaggiati sulla riva, irrimediabilmente attratti da non si sa bene quale richiamo d’amore. La CIA avvierà un’indagine servendosi di Echelon nel tentativo di capire quale oscura onda sonora possa aver disturbato le strumentazioni aeree in quel lasso di tempo: siamo nel 2002 e sull’argomento gli americani sono ancora abbastanza elettrici.
Nel frattempo le cinque ragazze guadagnano l’uscita: grazie Dominique, grazie Marta, grazie Marcella, grazie Roberta, grazie Veronica. E soprattutto grazie Sanremo, un’altra grande pagina della tua storia, della nostra storia, della storia musicale italiana è stata scritta. La musica italiana è viva ed è ancora capace di grandi momenti, perché alla faccia degli esterofili, degli snob da conservatorio, e dei colonizzati da MTV, la musica italiana ha ancora un cuore che batte. Batte forte. Inesorabile.
Daniele D’Aquila, in esclusiva per Indiscreto