Aspettando Sports Illustrated

23 Gennaio 2008 di Roberto Gotta

1. Super Bowl, allora. Una stagione andata a precipizio, nel senso che è passata rapidissima nelle ultime settimane, quasi che l’imminenza della finale facesse correre il tempo. Ormai lo sanno tutti, sarà New England-New York. Splendida, bella, super? E chi lo sa? Fare previsioni non è il nostro mestiere, né ci piace. Ad eccezione dei tifosi delle due squadre, però, crediamo che tutti gli altri sperino in una partita equilibrata, e a questo proposito il precedente di un mese fa, con i Pats vincitori ma solo per 38-35 e dopo una rimonta da -12, è incoraggiante. O forse no: perché i grandi coach NFL sono quelli che fanno a fette il video di una partita e ne ricavano le lezioni da applicare alla gara successiva, e il sospetto è che Bill Belichick, di New England, sia al capitolo un fuoriclasse, anche al netto di episodi di spionaggio. Poi, sul campo, anche i piani più sofisticati possono arrendersi: un fumble di un ritornatore di kick-off o un intercetto a una mano di un uomo di linea a tre yard dal touchdown, come accaduto due settimane fa a Peyton Manning, possono dare una svolta anche alla partita preparata con la migliore attenzione.
2. Tra l’altro in quella gara del 29 dicembre, l’ultima di regular season, aveva giocato molto bene il quarterback Eli Manning, 27 anni, destinato nonostante tutto ad essere “l’altro” Manning anche nei prossimi giorni, e da lì era iniziata la riscossa di un giocatore che obiettivamente fino a quel momento aveva dato solo a momenti la sensazione di valere il suo cognome e le manovre che i Giants avevano fatto per averlo: cedere nel 2004 ai San Diego Chargers un altro quarterback appena scelto, Philip Rivers, oltre ad una seconda scelta sempre del 2004 ed una prima e quinta del 2005. C’è stata dunque anche l’eventualità che i due Qb ceduti l’uno per l’altro si affrontassero al Super Bowl, il che avrebbe se non altro giustificato le mosse dei general manager che avevano preso tali decisioni, Ernie Accorsi per i Giants (ora in pensione, o “ritirato” come viene erroneamente tradotto in italiano il verbo “to retire” quando non si parla di sportivi praticanti) e AJ Smith per i Chargers, poi però New England ha tolto di mezzo tale prospettiva resistendo ai tentativi di San Diego di violare la end zone nonostante tre avvicinamenti a brevissima distanza. Facile fare la conclusione più banale: se intercetti Tom Brady tre volte, cancelli dalle ricezioni Randy Moss, arrivi tre volte a poche yard dal touchdown ma segni solo tre field goal (i calci da tre punti), fai un po’ fatica a sconfiggere una squadra quasi perfetta, cui basta allungare di un touchdown ed un po’ per restare al calduccio.
3. Onore peraltro a Rivers: si è saputo dopo la partita che non solo l’infortunio al ginocchio destro subito nella gara di Indianapolis era più grave del previsto, ovvero rottura del legamento crociato anteriore, ma che sull’arto era stato compiuto un intervento chirurgico di lieve entità qualche giorno prima, per permettergli di scendere in campo contro i Pats. Ed ora seguirà l’intervento completo, che richiederà una riabilitazione di alcuni mesi. Alcuni hanno messo in contrasto l’atteggiamento coraggioso di Rivers e quello tenuto invece dal suo running back LaDainian Tomlinson, che domenica ha portato palla nelle prime due azioni e poi, avendo preso subito un colpo al ginocchio sinistro, lo stesso al quale accusava già lo stiramento di un legamento mediale collaterale, non è più rientrato. Accostamento ingeneroso, probabilmente: difficile comparare due diversi tipi di infortunio, oltretutto in giocatori cui è richiesto un differente tipo di movimento in campo, e oltretutto fin qui, nella sua ottima carriera NFL, Tomlinson, Mvp nel 2006, non aveva mai suscitato perplessità o dubbi per la sua condotta ed il coraggio. Per cui merita fiducia: se non ha giocato è perché, come ha egli stesso sottolineato, non era in grado di farlo.
4. Quello degli infortuni è del resto un tema spinosissimo, nella NFL. Ne abbiamo già parlato a proposito della nuova politica della lega a proposito dei traumi cranici: fermare i giocatori a rischio, a costo di andare contro all’atteggiamento “macho” di chi vuole andare in campo per dimostrare di essere un duro. Comprensibile, ma a volte gli effetti a lungo termine sono pesanti: è di qualche giorno fa la notizia che Wilber Marshall, 45 anni, indimenticabile linebacker degli altrettanto indimenticabili Chicago Bears campioni 1985-86 (e successivamente a Washington, vincitore di un Super Bowl pure lì), ha vinto una causa che aveva intentato alla NFL perché gli venisse riconosciuta l’infermità e dunque l’impossibilità di svolgere lavori, con conseguente erogazione di una pensione (intanto ha ottenuto 72.000 dollari). Marshall lamenta dolori di origine artritica a ginocchia, gomiti, mani, caviglie, colonna vertebrale. Nei 12 anni dal giorno del suo ritiro, in cui ha avuto anche problemi economici (ha dichiarato fallimento nel 2002, chiedendo protezione dai creditori come vogliono le norme americane), Marshall aveva ricevuto pareri medici contrastanti, da specialisti indipendenti e da altri richiesti dalla NFL, con la conseguenza che quando un medico gli aveva riconosciuto la possibilità di compiere lavori di carattere sedentario la NFL stessa gli aveva tolto l’assegno di infermità. Ora la decisione della corte d’appello federale di Washington, e l’ennesimo caso, un po’ triste, di ex giocatore in difficoltà di salute, e di denaro.
5. Tornando al football giocato, o quasi, c’è un personaggio che vivrà piuttosto giorni di ambigue emozioni: Tiki Barber, uomo stimato da moltissimi, running back dei Giants fino alla scorsa stagione, passato poi immediatamente ad un ruolo di commentatore televisivo per la NBC. In estate Barber aveva dichiarato che Manning a suo avviso non si trova bene a dover essere il leader della squadra, una critica molto forte perché è scontato che ogni Qb debba essere un condottiero, uno dietro al quale va tutta la squadra, e ancor più scontato in una città che ti segue passo dopo passo come New York. Manning è un tipo tranquillo, uno che alza poco la voce e non crede ai gesti clamorosi, e forse anche per questo Barber non aveva individuato in lui un elemento particolarmente adatto al ruolo, ma quando gli riferirono le parole dell’ex compagno si scaldò, e non gliele mandò a dire, sottolineando come lo stesso Barber, criticando il suo coach Tom Coughlin e annunciando il ritiro a metà della stagione precedente, non avesse esattamente dato dimostrazione di leadership. Ora, un anno dopo il ritiro di Barber, il mollaccione Manning è al Super Bowl. I due fatti non sono collegati, ma qualcuno lo farà, malignando. Perché in realtà Barber al Super Bowl ci era arrivato pure lui, nel gennaio 2001, ma quel giorno a Tampa i Baltimore Ravens furono troppo forti per i Giants.
6. Splendido il particolare riportato su SI.com da Peter King, che – beato lui – era arrivato a Green Bay qualche giorno prima della finale di conference. Giovedì 17, alle 6 del mattino, c’erano già persone in coda fuori dalla più grande edicola di Green Bay ad attendere l’arrivo delle copie del nuovo numero di Sports Illustrated (nell’immagine), il settimanale che è sempre un piacere leggere (e al quale non devono essere arrivate le considerazioni che si fanno in Italia sul fatto che “i lettori non vogliono più servizi lunghi e troppo dettagliati”) e che per l’occasione portava in copertina una strepitosa foto di Brett Favre nel gesto di lanciare in mezzo alla neve che cadeva, scattata pochi giorni prima nella gara contro Seattle. Ebbene, il furgone con le 1000 copie è arrivato verso le 8, ed ha avuto bisogno di una scorta per poter attraversare la folla, peraltro assolutamente non ostile né in vena di saccheggi, semplicemente numerosa. In due ore circa le 1000 copie erano state vendute tutte. Senza gadget, dvd, borse della spesa, fette di prosciutto o scatolette di tonno in allegato.
7. Tornando al Super Bowl, un’annotazione che farà sentire vecchi molti lettori. Quelli, cioé, che ricordano bene Philippi Sparks, cornerback dei New York Giants e per

una stagione dei Dallas Cowboys, prima del ritiro avvenuto nel 2001. Sparks, che ha 38 anni, ora fa l’agente immobiliare ed abita a Glendale, in Arizona, non lontano da dove aveva fatto il college (Arizona State) ma soprattutto molto vicino allo stadio che ospiterà il Super Bowl XLII del 3 febbraio. E com’è come non è, sarà sua figlia Jordin a cantare l’inno nazionale. Nepotismo e favoritismo? No, a quanto pare. Prima di tutto perché il nepotismo a questi livelli si fa per influenza di persone importanti, e Sparks non lo è. In secondo luogo perché Jordin Sparks, 18 anni da poco, altri non è che la vincitrice della sesta edizione di American Idol, il concorso per giovani talenti che richiama molti milioni di telespettatori. Di sicuro non noi, che infatti ci siamo appellati a Wikipedia per dettagli ulteriori sulla ragazza, al centro pure di qualche polemica perché non è esattamente un modello di snellezza: la portavoce di un’associazione contro l’obesità l’ha criticata in quanto modello negativo.
8. Ora, per chiudere, informazioni di servizio, come dicono quelli veri. Mercoledì prossimo un’altra puntata di American Bowl, qui, e da Phoenix aggiornamenti a frequenza irregolare (ovvero, quando potremo) su http://vecchio23.blogspot.com. Contiamo di inserire anche foto, audio, piccoli video, se ne saremo capaci ed avremo il tempo. Ci sarà forse spazio anche per un po’ di NBA, ma non possiamo garantire nulla.

Roberto Gotta
http://vecchio23.blogspot.com

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