Aspettando LeBron

28 Novembre 2008 di Francesco Casati

NEW YORK – Non ha ancora giocato un minuto per i Knicks e non lo farà prima del 2010, ma LeBron James è già il re di New York. Martedì 25 Novembre è arrivato al Garden con i suoi Cavs e ha smantellato i Knicks in una normale gara di regolar season. Ma a New York City non c’è niente di normale. L’attesa era palpabile, il Post titolava “Royal Visit” in prima pagina, la Nike ha pianificato, proprio per questa partita, il lancio delle nuove scarpe di LeBron, che casualmente si chiamano “Big Apple” per via del loro colore rosso mela. Inoltre, i playground leggendari della città sono stati riempiti di palloni rossi col baffo della Nike e il logo LBJ. LeBron e Nike binomio vincente, tanto che Spike Lee, altro uomo Nike, ha “voluto” omaggiare l’arrivo del prescelto in città indossando le nuove scarpe.
Per scoprire come mai da una settimana circa i media non parlino d’altro che dell’arrivo di LeBron a New York nel 2010 bisogna fare un passo indietro. Donnie Walsh, nuovo presidente delle basketball operations, ha effettuato scambi con poca valenza tecnica ma con un forte impatto sul monte salari dei Knicks: sono partiti Jamal Crawford, Zach Randolph e Mardy Collins in cambio di contratti più che di giocatori. Infatti, i contratti dei nuovi arrivati, che rispondono al nome di Al Harrington, Tim Thomas e Cuttino Mobley, scadono nel giro di 2 anni, giusto in tempo per liberare lo spazio necessario per arruolare LeBron e un altro free agent al massimo di stipendio. Lebron ha dichiarato di avere un grande feeling con la città di New York, e che giocare al Garden gli regala sempre sensazioni uniche. Tutti gli indizi lo portano in maglia Knicks: la città, l’esposizione mediatica, gli sponsor, il suo tifo per gli Yankees, il coach D’Antoni definito da lui un “Mastermind dell’attacco” e la possibilità di riuscire a risollevare una franchigia che non vince l’anello dal 1973.
Quindi basta aspettare due anni per vedere LeBron nella città del Basket? In teoria si, ma due anni a New York sono un’eternità; la pressione e le aspettative della grande mela rendono difficili i progetti a lungo termine. Walsh è un uomo esperto, capace e pragmatico; è un newyorkese del Bronx, conosce l’ambiente e sa benissimo che gli ostacoli da superare per realizzare un progetto vincente sono due: difendere il proprio lavoro dai titoli dei media e dall’umore dei tifosi, dare continuità alla guida tecnica. I tifosi dei Knicks non accettano l’idea di non poter vincere, di non aver giocatori di talento in squadra e, quando al Garden il livello della pallacanestro si abbassa si alzano forti i fischi (buu in America). Ogni sconfitta viene amplificata dalla stampa locale e comincia una corsa al colpevole, una caccia all’uomo che porta tutti ad essere in discussione. La guida tecnica è sicuramente la parte più difficile da far funzionare; qui ha fallito miseramente pure Larry Brown e il ricordo della sua squadra si riassume in una parola: Titanic. Mike D’Antoni tecnicamente è lontano dal basket ruvido e compassato che il pubblico di New York ha amato con la squadra del ‘73 e poi con i Knicks di Ewing, Oakley e Starks. Inoltre, tranne Chris Duhon, Wilson Chandler e Gallinari, tutti i giocatori dei Knicks sono precari, e di questo gruppo almeno la metà sanno già che non vedranno il rinnovo di contratto.
Tra i precari c’è anche un prigioniero: Stephon Marbury. Il suo contratto da 21.9 milioni (nell’ultimo anno) di dollari lo rende invendibile; D’Antoni l’ha messo fuori squadra per le prime 12 partite di campionato, e ora con la rosa ristretta a causa di infortuni e scambi si rifiuta di giocare. Marbury, newyorkese puro sangue, oltre ad essere una primadonna e un carattere complicato non ha più voglia di giocare per la maglia dei Knicks, vuole prendere i suoi soldi e scappare lontano per ripartire da zero in una nuova squadra. Possibili destinazioni: Miami e Boston. A sua volta Donnie Walsh vuole che l’addio di Marbury sia legato a una clausola che impedirebbe al play di giocare per squadre della Eastern Conference. Gestire lo spogliatoio e creare un gruppo solido è un lavoro al limite dell’impossibile per D’Antoni, il quale non deve perdere la disponibilità dei propri giocatori e deve difendere la propria autorità di fronte alla stampa per non essere screditato. Tra due anni New York potrebbe essere una reggia pronta ad accogliere King James a suon di dollari, ma potrebbe anche essere un inferno cestistico. Tutto è insomma nelle mani di Walsh e D’Antoni.
Tornando alla partita Cavs-Knicks, tecnicamente possiamo commentare solo il primo quarto in cui tutti i Cavs hanno dimostrato di essere squadra nel saper difendere e andare a rimbalzo. Incredibile il lavoro di aiuto dei lunghi, specie sulle entrate avversarie e nei movimenti ad uscire sui pick ‘n’ roll; e ancora, il tiratore in angolo non viene mai lasciato libero e il contropiede primario viene fermato subito dalle guardie. Spettacolo puro! Ma 20mila spettatori erano al Garden per vedere LeBron, e noi non siamo certo stati da meno. La cosa più impressionante di James è il fatto di aver giocato come se avesse già visto la partita o l’avesse già immaginata. Il suo riscaldamento si è basato su tiri da fuori con poco ritmo, presi contro Gibson, fintando una partenza muovendosi con un passo e senza palleggio. I primi 6 punti della sua partita sono stati esattamente 2 tiri da 3 di questo tipo. Poi i Cavs hanno dominato in lungo e in largo e LeBron ha viziato i presenti con qualche giocata da fuoriclasse autentico qual è. In casa Knicks ben poco da segnalare, come si è potuto intuire dai fischi fortissimi arrivati dagli spalti.
Nas, un rapper di New York cresciuto nel Queensbridge (stesso quartiere di Ron Artest) in una sua recente canzone ha scritto queste rime: “The shot Robert Horry to win the game in the finals kid, Some things are forever, some things are not, It’s the things we remember that gave the world shock”. I tifosi dei Knicks sognano momenti come questi e negli ultimi anni di gestione Thomas il Basket non è stato rispettato. Walsh e D’Antoni hanno voltato pagina e devono ricostruire una mentalità vincente nell’attesa che al Re vengano consegnate le chiavi della città.

Francesco Casati, da New York
f.casati@fastwebnet.it
(in esclusiva per Indiscreto, foto di Francesco Casati)

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