Parigi 1999, la barca di Tanjevic

28 Luglio 2019 di Stefano Olivari

Anche a chi pensa di sapere tutto dell’Europeo 1999, seconda e ultima vittoria assoluta della nostra Nazionale di pallacanestro, consigliamo la visione di Parigi 1999, vent’anni dopo. Dal documentario di Simone Raso e Alessandro Mamoli, appena visto su Sky, è infatti impossibile staccarsi, così come è impossibile dimenticare la squadra messa insieme da Boscia Tanjevic.

Una nazionale che merita di essere considerata per il titolo, da bar, della migliore azzurra di ogni tempo, anche se per talento puro dei singoli era secondo noi inferiore a quella del fallimentare decennio Gallinari-Belinelli-Bargnani. Prendete gli azzurri del Preolimpico 2016 di Torino e confrontateli uno ad uno…

Una nazionale che si identificava fortemente nel suo allenatore e che fu protagonista di partite che per intensità furono da pelle d’oca, soprattutto la semifinale contro la Jugoslavia di Divac, Bodiroga e Danilovic. Ripetiamo: Divac, Bodiroga e Danilovic. Non è un caso che i nostri due Europei, quello del 1983 e questo, siano passati attraverso vittorie travolgenti, con tanto di intimidazione fisica, contro una squadra che per tanti motivi (il primo che quasi sempre ha avuto quattro o cinque fenomeni) abbiamo sempre sofferto. Con quella rabbia in più di veneti (Marconato, Meneghin padre) e friulano-giuliani (Galanda, De Pol, Mian, Chiacig), che non guasta.

Per deformazione professionale ci ha colpito la parte in cui Tanjevic convoca a cena i giornalisti al seguito della Nazionale, dopo alcuni articoli su giocatori (Myers?) scontenti della sua gestione. Un discorso del genere ‘Siamo tutti sulla stessa barca, siamo una famiglia’ che Tanjevic aveva il diritto di fare, ma i giornalisti il dovere di rimandare al mittente. Quasi nessuno lo fece e l’Italia di Tanjevic diventò per i media una grande famiglia, prima ancora di essere una squadra fortissima. Pensare che Kukoc, Turkoglu, Nowitzki e Sabonis, per citare avversari trovati lungo la strada, siano stati battuti solo perché i giornali si sono autocensurati è ridicolo e nemmeno vero: la Croazia ci superò e il trentacinquenne Sabonis ci umiliò con un clinic post alto-post basso, con passaggi che per lui erano di allenamento. Di certo la parrocchietta non ne esce benissimo.

Una bella idea è quella di far accompagnare le immagini al racconto dei giocatori, con il minimo sindacale di storytelling. Molto interessanti gli interventi di Carlton Myers, onesto nel dire che la compattezza di quella squadra (nata dalla clamorosa esclusione di Pozzecco) si era formata sul campo e non fuori, con discorsi motivazionali o cose simili. Molto profondo il botta e risposta fra Dino, all’epoca dirigente accompagnatore, e Andrea Meneghin, il nostro miglior giocatore del torneo anche se la stella annunciata era Myers: poca pallacanestro e tanti non detti fra padre e figlio. Sono passati vent’anni, ma i brividi rimangono. Nella pallacanestro, e secondo noi ancora di più nella pallacanestro liquida di oggi, vale il teorema di Petrucci: senza la Nazionale non sei nessuno.

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