Sport con un senso

7 Aprile 2009 di Stefano Olivari

La partita di fatto è finita dopo cinque minuti, ma perdere la notte per North Carolina-Michigan State ha avuto un senso. Un discorso puramente tecnico su quale sia il miglior basket del mondo non può nemmeno cominciare (dei primi cento giocatori del pianeta novantacinque giocano nella NBA, al netto delle considerazioni su certe partite di fine stagione con in campo chi cerca quel decimale di probabilità in più per arrivare a Blake Griffin), un discorso etico invece porta dritti verso lo sport fondato sul senso di appartenenza: il concetto potrebbe essere più chiaro leggendo il reportage da Peoria, Illinois, pubblicato sull’ultimo American Superbasket a firma Roberto Gotta (the original March Madness, cioè il torneo finale delle high school dello stato di recente purtroppo diviso in quattro fasce), ma anche la Division I della NCAA si presta a spiegarlo. Dei due quintetti base solo Ty Lawson (per lui record di recuperi in una finale) ha un futuro NBA a livello alto, mentre per gli altri ci può essere buon gregariato (Hansbrough, Green, Lucas), specializzazione (Ellington, Suton) o Europa. Non la spariamo grossa se diciamo che tre dei quattro recenti Montepaschi-Pana hanno avuto intensità e livello tecnico molto superiore a questa partita giocata davanti a 73mila spettatori, ma la forza del basket di college è proprio quella di prescindere dal valore di chi va in campo. Chi pensa di strappare giovani tifosi alla NBA proponendo in vari paesi del mondo delle locali NBA di sfigati (al confronto) continuerà a sbagliare e a perdere terreno, rimanendo in balìa di pseudomecenati e riciclatori vari.

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