Scrittori che si abbassano

23 Agosto 2009 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari

Il calcio italiano è l’argomento di conversazione preferito degli italiani, ma per motivi misteriosi ha ispirato pochi romanzi. Quasi tutti accomunati dalla bruttezza, quelli scritti da giornalisti frustrati e quelli dei letterati con una conoscenza della materia inferiore alla media di un bar. Fra i pochi a salvarsi, per sentito dire, l’Azzurro Tenebra di Giovanni Arpino. Per sentito dire, appunto, perché l’opera uscita tre anni dopo il Mondiale 1974 è stata per decenni senza ristampa prima che poco tempo fa la casa editrice Graphot la riproponesse. Finalmente l’abbiamo riletto, per non citarlo nel 2009 fidandoci di un bambino anni Settanta a cui non era piaciuto (l’istruzione progressista del tempo gli aveva fatto credere che quando qualcosa non piace è perché non la si è capita) ma che diceva in giro l’esatto contrario. Di cosa si tratta, insomma? Di un romanzo a più piani, evidenti anche se intersecati. Il primo è quello del racconto della spedizione italiana alla Coppa del 1974, vissuta da Arpino come inviato ‘nobile’ della Stampa: più confidenze che storia, più sensazioni che analisi, più considerazioni personali che che notizie. Con una divisione netta fra buoni (Bearzot, osservatore inascoltato dal c.t., Zoff e Facchetti), cattivi (le troppe primedonne bolse, da Rivera a Riva, oltre all’ottuso Chinaglia) e gente che si lascia trascinare dagli eventi (Valcareggi su tutti). Il secondo è quello dell’affresco del giornalismo sportivo: le Iene, sempre a caccia di una frase ambigua da strumentalizzare, le Belle Gioie che vivono la professione come tifo, i Grandi Inviati disillusi e cinici: livorosetto il ritratto di Brera, con il quale Arpino dopo una quasi amicizia anche litigò, forse colpevole di avere la sua stessa filosofia di vita (il grande scrittore che si abbassa a trattare una materia popolare) ma una fama molto superiore, affettuoso quello di Bruno Bernardi che per la Stampa si occupava di calcio giocato, centrate molte considerazioni sull’inutilità del lavoro giornalistico. Il terzo piano importante è quello del linguaggio: una specie di vernacolo a metà strada fra il cazzeggio intellettuale ed il calambour da redazioni, con citazioni nobili inframmezzate a considerazioni ignobili. Il piano più geniale del libro viene di solito considerato proprio il terzo, ma a noi è parso pesante ed esageratamente grottesco: l’autocompiacimento linguistico può produrre Dante, ma anche Camilleri. Emozionante invece la vena amara di Arpino, da romanziere vero quale era (è morto nel 1987), che riesce ad applicare con maestria allo sguardo di un centrocampista argentino, all’appuntamento con un cane fuori dall’albergo, alla patria idealizzata dagli emigranti, allo squallido ritiro della Polonia, alle prese in giro fra italiani in gita. Chi si aspetta di trovare retroscena del Mondiale forse più importante della storia, per i cambiamenti che comportò, rimarrà deluso. Così come noi, che avevamo mitizzato un libro che non ci era piaciuto nemmeno da piccoli. Molti critici dicono però che il grande romanzo italiano sul calcio è stato scritto e che sia proprio questo.
stefano@indiscreto.it
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