Salvati in Cornell

22 Marzo 2010 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
La Cornell è fra le migliori università del mondo, secondo tutte le classifiche, con la posizione che cambia a seconda del parametro a cui si dà più peso: numero di premi Nobel, investimenti in ricerca, pubblicazioni, eccetera. Di sicuro fra questi parametri non c’era mai stato il basket. Eppure i ragazzi dell’ateneo newyorkese hanno scritto la storia di questo torneo NCAA, raggiungendo le Sweet Sixteen (gli ottavi di finale) battendo Temple da netti e strabattendo Wisconsin da nettissimi sfavoriti: numero 12 del loro quarto di tabellone contro rispettivamente la 5 e la 4.
In un torneo già pieno di sorprese (Saint Mary’s che ha prevalso su Villanova e Northern Iowa che ha incredibilmente  superato la numero uno Kansas: sul piano tecnico la sorpresa maggiore è proprio quest’ultima) Cornell è comunque riuscita a conquistare la copertina. Colpisce il fatto che questa sia la prima apparizione di una squadra della Ivy League negli ottavi dal 1979 (ci riuscì Penn, che arrivò addirittura alle Final Four, nell’anno della finale Magic-Bird), colpisce ancora di più che siano ancora in corsa ben cinque squadre che i media americani definiscono ‘non BCS’ (cioè non appartenenti alle sei conference storicamente di maggiore qualità).
Ma torniamo a Cornell, che secondo l’allenatore di Syracuse Jim Boeheim è la squadra che gioca il miglior basket degli Stati Uniti: chi è devoto a March Madness on Demand e ieri sera ha visto la cavalcata della Big Red non può che convenire. Gioco equilibrato, sia pure funzionante solo con un tiro da tre punti caldo, difesa che dopo il pressing nei primi secondi sfida i tiratori e si occupa solo delle linee di passaggio, attacco con pochissimi palleggi e pieno di azioni dal sapore antico come il repost (palla dentro al centro in post basso per due volte consecutive). A proposito di repost, questo gesto tecnico è stato fondamentale anche nell’impresa della Saint Mary’s ‘australiana’ grazie al senso della posizione del californiano Omar Samhan, una specie di Joe Barry Carroll del terzo millennio.
Non solo: dei nove ragazzi della rotazione di coach Donahue ben otto sono senior, cioè al quarto ed ultimo anno di università. Difficile prevedere per qualcuno di loro un futuro professionistico ad alto livello, parlando di professionismo vero e non di quello cialtrone e senza logiche economiche tipo serie C italiana. Più titoli di altri si guadagna Ryan Wittman, un po’ per le doti offensive e molto per l’essere figlio del più noto Randy: guardia dell’Indiana di Bobby Knight campione 1981 (compagno di reparto era Isiah Thomas), buon professionista e poi allenatore NBA con ultima fermata gli Wizards dove fa l’assistente. Storie familiari a parte, in generale quelli di Cornell sono l’esatto contrario dei ragazzi di Kentucky, John Wall e DeMarcus Cousins in testa (da non dimenticare Eric Bledsoe), freshman con luminosa carriera NBA già scritta in faccia. Proprio la grande favorita per la vittoria finale, dopo l’eliminazione di Kansas, che giovedì a Syracuse troverà sulla sua strada proprio Cornell.
Last but not least, visto che non siamo razzisti ma nemmeno daltonici, a Kentucky sono quasi tutti neri e a Cornell quasi tutti bianchi. Il marketing è salvo, da ‘L’America si ferma’ dei quotidiani italiani pre Super Bowl, il pronostico è scontato ma la quota di Kentucky rischia di essere lo stesso buonissima visto che per i prossimi tre giorni si parlerà solo di queste eroiche squadre fatte di studenti veri o semi-veri e non dei forzati dello ‘one and done’. Fuori da ogni discorso sportivo o sociologico, squadre come Cornell rappresentano l’essenza del college basketball: uno sport meraviglioso per chi poi nella vita farà qualcosa d’altro, senza essere costretto a mendicare passaporti bulgari.

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