Rubini e i gatti

8 Febbraio 2011 di Oscar Eleni

di Oscar Eleni
Le persone che si amano o che hai amato non ci sono per nessuno. Sono altrove, lontano più della notte della vita misera che stai vivendo aspettando il gong. Più in alto del giorno. Luce accecante come sono gli amori infiniti, i primi e gli ultimi. Ecco come ci sentiamo adesso che se ne è andato Cesare Rubini, campione della vita e dello sport, uomo che è nella casa della gloria per il basket, che ha ha fatto diventare popolare in un paese che pensava soltanto agli Harlem, ma anche per la pallanuoto di cui era un maestro cantore, un difensore senza ostacoli etici.
Della sua gloria sportiva saprete tutto: scudetti, oro olimpico. Ne sapreste ancora di più se la Libreria dello Sport avesse sugli scaffali il libro che scrivemmo con Aldo Pacor, lui per amicizia e condivisione di vita grama e poi meravigliosa, noi per un caso, per una scelta nel giorno in cui decidemmo di abiurare con il calcio per seguire una palla a spicchi. Sul resto vi diciamo subito che abbiamo passato la notte di veglia seguendo la strada di Jacques Prevert, poeta che come lui non aveva mai voluto finire gli studi, che fingeva di non saper scrivere anche se riusciva a leggere l’anima di tutti noi alla perfezione, perché ci sono poesie che si adattano perfettamente al principe leone che aveva paura veramente soltanto dei gatti e dell’ottusità di un burocrate anche se perdeva poco tempo fra i collezionisti di gomme e pennini e puntava diritto al cuore: “ Mi dica – il tono era del baritono da golfo mistico triestino impegnato nel ramo pirotecnico – chi comanda”.
Si infilava ovunque. Alle Olimpiadi, da atleta o dirigente, riusciva sempre a sedersi nel palco delle autorità durante la cerimonia d’apertura. Aveva la faccia giusta per mandare in bambola chi osava fissarlo troppo a lungo, a parte i gatti appunto. Se voleva entrare in un museo chiuso al pubblico diventava ambasciatore, se voleva qualcosa non badava all’ora in cui telefonava, anche perché il suo vero grande maestro negli affari della vita e dello sport era l’Adolfo Bogoncelli che chiamava sempre all’alba. Sono Rubini. Rispondeva sempre così al telefono, si presentava sempre così alla gente. Bastava ed avanzava diceva il suo amico Pedro Ferrandiz, guru del grande Real Madrid di baloncesto, nemico ed amico. Lo sapevano tutti i suoi giocatori e tutti oggi sono uniti nello stesso abbraccio dei tempi in cui l’Olimpia Milano batteva ogni tipo di record, vinceva la coppa dei campioni, prima squadra italiana.
Squilla il telefono e non sai bene se chiamano da qui o dall’aldilà. Certo il senatore Bradley, certo Peppone Sforza e i fratelli Stefanini o magari il testimone di nozze e di vita il Mimis Stefanidis che era anche gloria sul campo, di sicuro tutti i suoi fratelli del Settebello d’oro ai Giochi di Londra, farà baruffa per avere la linea libera Brumatti rubandola a Vittorio Tracuzzi o anche a Pentassuglia che lo imitava così bene. Sandro Gamba pregherà per tutti loro, Gianfranco Pieri e la Pierisa, come avveniva nella prima età dell’oro milanese, organizzeranno per chi si è perduto, per chi ha perduto la memoria proprio come al Principe che non doveva chiedere mai e alla fine della corsa invece delle Termopili che gli sarebbero piaciute ha scoperto il signor Alzheimer. Volete sapere come poteva essere giocare per Rubini? Leggetevi L’’organo di Barberia del poeta francese nato a Neully, sull’acqua come il Principe nato dal cuore dalmata e montenegrino e fiorito nella triestinità mai tradita, un canto che noi adattiamo al più affascinante dei pirati.
Spogliatoio. 
Interno giorno prima, dopo o durante una stagione bella, brutta, fortunata, orribile. 
Io suono il piano, diceva uno. 
Io il violino, diceva l’altro. 
Io l’arpa o il banjo, il violoncello, il flauto, la cornamusa o persino la raganella. 
Quanti giocatori la pensavano e la pensano così parlando soltanto di quello che suonavano loro. Parlavano ma nessuno più suonava le note giuste. Tutti i musicisti, all’improvviso, si girarono e videro nel golfo mistico un signore alto, bello, forte, che stava zitto. 
E voi che tacete, gli chiesero, che strumento suonate? 
Lui, Rubini, rispondeva a tutti nella stessa maniera:” Io suono l’organo di Bagheria e me la cavo anche con il coltello”.
Era così, ma non li ammazzava proprio tutti, anzi, li faceva suonare nella maniera giusta e Riminucci non era solo la tromba degli angeli biondi, era parte di una squadra, come tutti, come i migliori, come i più bravi, ma anche come chi aveva soltanto una piccola parte in commedia e doveva dire agli avversari che il pranzo partita era stato servito. Amava ed odiava con grande intensità e oggi, come domani, come sempre cammineremo con questo uomo che è stato il Nord, il Sud, l’Est e l’Ovest del nostro mondo. Si rideva, si litigava, ma lui era sempre il signor Rubini, amava la vita come una donna, anche se non era sempre la stessa donna, lui e Ottavio Missoni per ricordarci che si può bere un bicchiere giusto ad ogni angolo di via, brindando alla salute di un mondo che si stava disperdendo.
Piramide di vetro, di vigne e di sabbia, di ricordi leggeri, di rancori dimenticati. Tante volte sotto il tavolo di Sergio al Torchietto oggi chiuso per fallimento dei sentimenti, della Badia, del Diana, nel regno di Gianluigi Porelli che lui avrà il privilegio di trovare già pronto a nuove battaglie fra odio ed amore. Non si cercavano sempre ragioni nel vino, soprattutto per colpa dei medici che in effetti gli facevano un po’ paura, molto spesso bastava l’acqua che sapeva di uva. Alla sua salute caro Rubini, carissimo Principe, e non importa se ci diranno che se ne è andato per sempre. Non si muore mai nel cuore della gente. Lui c’è e ci sarà, per sempre nel ricordo e nell’idea che ci siamo fatti pensando al pirata che serviva la regina Elisabetta bruciando le navi della cosiddetta invincibile Armada.

Oscar Eleni

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