Per Kitz suona la campana

21 Gennaio 2012 di Simone Basso

di Simone Basso
Arriva quasi sempre la settimana dopo Wengen ed è, comunque vada, l’apogeo della stagione dello sci alpino. Kitzbuhel e la sua pista di discesa, la Streif, rappresentano l’immaginario più irresistibile dello sport invernale. Kitz ha qualcosa del rito primigenio, dell’iniziazione di una casta, quella degli uomini cannone.
Essere discesista significa, prima o poi, imbattersi nell’orco: buttarsi giù dall’Hahnenkhamm ha un valore agonistico che sconfina nella mitologia. E’ forse una leggenda metropolitana il secchiello che accoglie i conati di vomito, provocati dalla tensione e dalla paura, degli esordienti. Ma chi affronta la Classicissima non riesce a ignorare il significato recondito della sfida: giù da quel cancelletto l’atleta termina il praticantato, la giovinezza, ed è costretto a diventare uomo.
Tecnicamente la Streif è una follia ben ponderata, vanta un incipit straordinario e un epilogo spaventoso, in mezzo è un esercizio di velocità controllata.
Non ha nulla delle discese moderne, ovvero supergiganti accelerati, ideate per una tranquilla fruizione televisiva. Come fece notare tempo fa una vecchia pellaccia, Michael Walchhofer, al cospetto di Kitz una libera standard di Coppa del Mondo pare banale, un gioco per bambini.
Ci si lancia dalla Cresta del Gallo attraverso la Mausefalle.
La denominazione, ovvero Trappola del Topo, non lascia speranza alcuna; trattasi di un tuffo a tomba aperta con una pendenza, sotto il dente, che raggiunge l’ottantacinque per cento. L’anno scorso Grugger, non un frillo qualsiasi, non gestì la forza centrifuga e si schiantò: il risultato furono undici giorni di coma farmacologico. L’inizio mozza il respiro, torce le budella e introduce alla Steilhang, una doppia curva in contropendenza che scaraventa lo sciatore verso le reti di protezione. Nel 1994, in quel punto, Marc Girardelli cadde su un fianco ma riuscì, con un riflesso felino, a riprendere la traiettoria e a concludere secondo.
Poi arriva il momento degli scivolatori, dei piedi sensibili e del materiale giusto
; il Bruckenschuss, la stradina di scorrimento, ha un sapore ancestrale. Stretta, infida, all’interno di un bosco, sembra rimandare a scenari antichi, minacciosi. Ci vengono in mente Dante Alighieri, Francesco Colonna e l’allegoria cupa della selva oscura. Più sotto il Larchenschauss conduce all’Hausberg, uno dei passaggi chiave. Decisivo, con l’acido lattico che consuma i muscoli e annebbia la vista, pensare all’approccio della Hausbergkante: la curva della Casa del Monte è l’attimo fuggente che decreta il risultato della picchiata. Ironia della sorte, uno slalomista (il campionissimo Gustav Thoeni) nel 1975 fece la diagonale capolavoro che gli permise di insidiare Franz Klammer. Perse per un centesimo, che con la tecnologia odierna consegnerebbe un ex aequo straniante, ma fu un’impresa più bella di una vittoria.
Sta alla sensibilità del discesista, l’istinto e la forza, leggere la traiettoria perfetta per ricavarne la velocità massima puntando lo Zeilschauss, il rettilineo finale.
Il luogo iperreale, dove si superano abbondantemente i centoquaranta orari, è accompagnato dall’urlo della folla, dei cinquantamila assatanati che attendono al traguardo. L’ultimo salto, infame, è stato ammorbidito dopo tanti, troppi, incidenti; quello di Daniel Albrecht, tre anni fa, fu agghiacciante. Il grande Pirmin Zurbriggen vinse, incredibile ma vero, pur rompendosi un menisco sul balzo… Ma il numero di alta scuola, degno del Cirque de Soleil, fu di Kristian Ghedina che improvvisò una spaccata, geniale, fregandosene del cronometro e della competizione. Un omaggio estremo e uno sberleffo verso il mostro. O forse l’ultima sfida alla sorte, laddove rischiò la vita. Nel 1990 c’era poca neve, fecero due manche, e durante la prima il cortinese (allora giovanissimo) perse il controllo. Centrò una fune di acciaio che fuoriusciva proprio in quel tratto, si ruppe due costole e, sbattendo il capo, perse conoscenza. Fu baciato dagli dei perchè, se fosse arrivato di testa, sarebbe stato ghigliottinato.
Il bordone di 3312 metri si modifica continuamente, dispettoso, tendendo tranelli ogni dove; a seconda del manto o della temperatura, del ghiaccio o della nebbia.
Si scende sempre e comunque, alla faccia della sicurezza, perchè Kitzbuhel è l’assoluto e giustifica qualsiasi tipo di squartamento. Avvenimento egemone che paralizza un’intera nazione, simulacro di un’identità orgogliosa. E’ sempre stato il campo di battaglia ideale per la sfida tra le due scuole più importanti del discesismo, Austria contro Svizzera. Con l’intrusione di estranei impertinenti, talvolta bizzarri come i Crazy Canucks di Podborski e Read, autori di un filotto (1980-83) concluso dal Todd Brooker che, quattro anni dopo, ebbe un incidente di tipo quasi terminale proprio a Kitz. Fu così anche per il campione olimpico Patrick Ortlieb nel 1999. La lista di chi chiuse la carriera sulla Streif è, ahiloro, infinita. Furono feriti gravemente, in ordine sparso al pari delle ossa spezzate, Guttermann, Hudson, Assinger, Buder, Graggaber, Schifferer, McCartney… Brian Stemmle divenne ricco (sic) grazie a una caduta tremenda, provocata da una rete di protezione collocata male. Denunciò gli organizzatori e vinse la causa: ovviamente, siccome Kitzbuhel ha un’aurea vendicativa, finì l’agonismo con un altro botto sulla Streif.
Alcune volte è solo emozionante, in altre si fa la storia della disciplina, talora diventa terrorizzante per chi la affronta e chi assiste.
Nel 1991, pronti e via, caddero due apripista su tre e il terzo a malapena tagliò il traguardo. Quando il pettorale numero uno uscì, si percepì subito l’olezzo di sangue. Quel dì, vivaddio, anche i direttori di gara si spaventarono: interruppero la mattanza per rallentare i passaggi più scabrosi. Ci sono invece giorni di emozione pura, come il 1984 di Klammer che, appena passato l’arrivo dopo la quarta affermazione, trasfigurò e divenne dioscuro. Nella cittadina che diede i natali al più grande di sempre, Toni Sailer, il poker è esibito pure da Karl Schranz e Didier Cuche (che oggi è diventato con cinque vittorie il recordman assoluto, ndr). E’ la vicenda più importante, il momento che può cambiare per sempre le fortune di un campione.
Bode Miller la brama da anni; Ingemar Stenmark, il re delle discipline tecniche, volle correrla almeno una volta. Dal 1931 l’Hahnenkamm, un pò come la Parigi-Roubaix nel ciclismo, costringe i suoi attori ad obbedire a una cerimonia barbara, senza tempo. Non esiste avvenimento sportivo che incuta più rispetto e che regali più gloria. Nello sci alpino il paradiso e l’inferno si materializzano nello stesso pertugio: in una mattina di fine Gennaio, sulla Streif.

(per gentile concessione dell’autore, articolo pubblicato su Il Giornale del Popolo del 20 Gennaio 2012).

 
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