L’unica partita di Hitler

14 Dicembre 2007 di Alec Cordolcini

Ci aveva pensato Jesse Owens a far innervosire Adolf Hitler alle Olimpiadi di Berlino del 1936. “Non stringerò mai la mano di un negro”, aveva tuonato il Führer contro il Commissario dello Sport del Reich, Hans Von Tschammer und Osten che gli consigliava di ritornare sui propri passi (“per il bene dello sport”) e di premiare personalmente il vincitore dei 100 metri. Quattro giorni dopo arrivò Asbjørn Halvorsen e lo smacco per il dittatore nazista, che vedeva lo sport esclusivamente quale strumento di propaganda e di prestigio per il Reich, divenne doppio. Nessun problema di carnagione troppo scura questa volta, solo una pura e semplice sconfitta sportiva in una disciplina di cui a lui non importava nulla ma che avrebbe dovuto portare alla Germania una medaglia d’oro facile facile, o almeno così gli avevano garantito. Per questo motivo Hitler aveva accettato, il 7 agosto 1936, di rinunciare a presenziare ad un incontro di polo per sedersi sulle tribune del Poststadion di Berlino in compagnia dei pezzi grossi del partito (Goebbels, Göring, Hess, il ministro degli interni Frick e quello dell’educazione Rust) per vedere la prima e unica partita di calcio della sua vita, ovvero Germania-Norvegia. Asbjørn Halvorsen nel frattempo arringava i suoi uomini tentando di convincerli che sarebbe stata una partita come tutte le altre; del resto lui il calcio tedesco lo conosceva piuttosto bene, avendo vestito per dodici anni la maglia dell’Amburgo, con il quale aveva anche vinto, nel 1923 e nel 1928, due campionati nazionali.

L’euforia della Federcalcio tedesca (DFB) alla vigilia delle Olimpiadi era palpabile; dimenticati gli stenti e le figuracce raccolte nel primo ventennio del secolo, la Germania aveva dimostrato di poter dire la sua nel panorama calcistico mondiale con il terzo posto raccolto ai Mondiali italiani di due anni prima. L’assenza in quella manifestazione dei campioni del mondo dell’Uruguay, dei vice-campioni dell’Argentina e degli allora quasi imbattibili maestri inglesi era apparso un dettaglio di poco conto, così come l’aver fatto disputare alla squadra una sola amichevole, contro l’Everton, nei due mesi precedenti l’inizio del torneo olimpico. Ma le convinzioni della DFB erano a prova di scalfittura per almeno tre motivi: la squadra aveva perso solo tre degli ultimi sedici incontri disputati; Austria, Italia ma soprattutto Inghilterra avevano annunciato che si sarebbero presentate al torneo con una formazione di dilettanti; infine proprio contro gli inglesi al White Hart Lane di Londra nel dicembre del ’35 la Germania aveva dato prova di grande maturità uscendo, a dispetto dello 0-3 finale, tra gli applausi del pubblico di casa (nel corso dell’incontro Reinhold Münzenberg aveva marcato una giovane ala dello Stoke City alla terza presenza in nazionale che rispondeva al nome di Stanley Matthews). La medaglia d’oro sembrava insomma una pura formalità.

Superato agevolmente il primo turno del torneo olimpico con un 9-0 al Lussemburgo, per l’incontro con la Norvegia il presidente della DFB Felix Linnemann suggerì al commissario tecnico Otto Nerz, alla luce della modesta caratura dell’avversario, mai vincente negli otto precedenti con i tedeschi, di lasciare a riposo i giocatori migliori per non affaticarli troppo in vista dei successivi incontri. In campo sarebbero scesi alcuni giovani emergenti del calcio tedesco, tra i quali Ernst Lehner, Otto Siffling e August Lenz, quest’ultimo il primo giocatore del Borussia Dortmund a vestire la maglia della Nationalmannschaft. “Sono io che rispondo al Reichssportführer” aveva esclamato Linnemann troncando sul nascere tutte le perplessità espresse da Nerz. Non ci è dato sapere che parole usò per giustificare la doppietta con la quale Magnar Isaksen aveva affondato i sogni di gloria di tedeschi eliminandoli anzitempo dalla competizione. Gli uomini di Halvorsen avevano giocato una partita perfetta, considerando il gap qualitativo che separava le due squadre; primo colpo sferrato a freddo dopo soli sei primi di gioco, quindi ottanta minuti di puro contenimento in cui a stento i nordici avevano varcato la linea di centrocampo, per concludere con il classico contropiede poco prima dello scadere per il definitivo 2-0. Arriveranno terzi e vinceranno la medaglia di bronzo, primo e finora unico alloro per una delle migliori nazionali norvegesi di sempre, che poteva contare su giocatori quali Arne Brustad, la stella della squadra che nel 1938 venne inclusa nel Rest of Europe XI che affrontò l’Inghilterra a Wembley, Reidar Kvammen e Jørgen Juve, quest’ultimo tutt’oggi miglior marcatore della Norvegia di sempre con 33 reti realizzate in 45 partite.

Contrariamente alle previsioni lo sconcertante epilogo non provocò sconquassi in casa tedesca, con la DFB che rimase invano in attesa di ordini dall’alto per ufficializzare il licenziamento del commissario tecnico. Ma i gerarchi nazisti, scottati dalla figuraccia rimediata, avevano perso qualsiasi interesse nei confronti di uno sport tanto imprevedibile, perciò che se ne andassero al diavolo Nerz e tutti gli appassionati di un simile gioco. Ci pensò lo stesso Nerz, sulle cui spalle gravavano comunque non poche colpe, dalla scarsa perizia tattica alla rigida disciplina simil-militare nella quale aveva inquadrato (ed esasperato) la squadra, a risolvere il problema annunciando il proprio ritiro dalle scene e lasciando campo libero al suo vice, Josef “Sepp” Herberger, l’uomo che quasi vent’anni dopo sarà l’artefice del Miracolo di Berna, ovvero della vittoria della Germania (Ovest) ai Mondiali del 1954. Un miracolo fu anche la salvezza di Asbjørn Halvorsen dalla guerra e dalla furia nazista. Nel 1938 aveva qualificato la Norvegia ai Mondiali di Francia dopo un tiratissimo doppio confronto di qualificazione con l’Irlanda e due anni più tardi, con l’avvento al potere del famigerato Vidkun Quisling (il cui governo fu talmente prono nei confronti degli occupanti tedeschi che oggi il suo cognome viene utilizzato come sinonimo di “traditore” e “collaborazionista”), la sua opposizione al regime lo aveva fatto finire nelle galere patrie con l’accusa di boicottaggio e tradimento. Gli proposero di andare in Alsazia a fare il guardiano (leggi aguzzino) in un campo di lavoro, lui rifiutò e si ritrovò in un campo di concentramento nei pressi di Amburgo, con il fisico minato dalle torture. Sopravvisse, e quando tornò nel mondo libero gli fu affidato il ruolo di segretario generale della Federcalcio. Dopo di lui, si dovrà aspettare fino al 1994 per rivedere la Norvegia in un mondiale di calcio.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it

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