La squadra più odiata

28 Dicembre 2007 di Alec Cordolcini

Nel suo libro dedicato alle manipolazioni compiute dalla Stasi e dal SED (il partito comunista della Germania Est) sul calcio della DDR (il titolo è “Erich Mielke, die Stasi und das runde Leder”), Hanns Leske definisce la BFC Dynamo Berlino “la squadra più odiata di Germania e, forse, del mondo intero”. Un giudizio severo reso ancora più duro dal commento che sottolinea come ai giorni nostri solamente qualche anima irriducibile del comunismo sparsa per il globo possa tifare per il suddetto club. In Italia di proseliti dovrebbe quindi trovarne ancora parecchi, quella che è stata la squadra più vincente della Oberliga tedesca, e infatti è proprio navigando tra i siti della nostra penisola che è possibile imbattersi in qualche accenno alla “gloriosa era della BFC Dynamo Berlino”, chiaro esempio di come un abuso di nostalgia (sentimento che in piccole dosi può essere di conforto a tutti i calciofili contemporanei alle prese con uno sport sempre più finto) possa portare all’eccessiva idealizzazione, ed alla conseguente deformazione, del passato. Che in questo caso tragico era, e tragico rimane.

Nella storia della BFC Dynamo Berlino di glorioso c’è sempre stato ben poco, a partire dalla fondazione, avvenuta il 15 gennaio 1966 dopo che per ordine del capo della Stasi (abbreviazione di Ministerium fur Staassicherheit, Ministero per la Sicurezza di Stato) Erich Mielke i giocatori della BFC Dynamo Dresda, una delle migliori compagini dell’epoca, erano stati trasferiti in blocco tra le fila di questo nuovo club, affinché anche la città di Berlino potesse avere una degna rappresentante nella massima divisione del campionato della Germania Est. Una politica “taglia e cuci” particolarmente utilizzata all’epoca dai vari gerarchi di partito nel tentativo di garantire alle proprie squadre quei successi che il campo era così restio a regalare. Tra questi, Eriche Mielke era il più potente. Ufficialmente la Repubblica Democratica Tedesca rispettava le istituzioni della democrazia. C’erano procuratori distrettuali, avvocati, giudici, e anche partiti politici, almeno sulla carta. In realtà esisteva solo il Partito di Unità Socialista (il già citato SED) e il suo strumento, la Stasi. I giudici venivano istruiti da quest’ultima, a sua volta fedele alle direttive del partito. Non c’era spazio perché una persona potesse difendersi dallo stato in quanto tutti gli avvocati difensori e tutti i giudici ne facevano parte. La Stasi “era l’esercito interno con cui il governo manteneva il controllo. Suo compito era sapere tutto di tutti, usando ogni mezzo. Sapevano chi erano quelli che venivano a farti visita, sapeva a chi avevi telefonato, sapeva se tua moglie di metteva le corna. Era una burocrazia metastatizzata in tutta la società tedesco orientale; allo scoperto o al coperto, c’era dovunque qualcuno che riferiva alla Stasi su parenti e amici, in ogni scuola, ogni fabbrica, ogni caseggiato, ogni bar. Nei suoi quarant’anni di vita, essa aveva prodotto l’equivalente di tutti i documenti della storia tedesca a partire dal Medioevo” (Anna Funder, “Stasiland – C’era una volta la DDR”, Feltrinelli).

Con simili premesse è facile intuire come le “condizioni ambientali” nella Oberliga e dintorni non fossero propriamente sfavorevoli alla BFC DB, che comunque non riuscì a mettere in bacheca alcun titolo nazionale finché il livello di competitività e di onestà del campionato si mantenne su livelli accettabili. Poi sul finire degli anni Settanta Mielke perse la pazienza e decise di posare la sua longa manus anche sul campionato di calcio, ed ecco quindi spuntare trasferimenti “unidirezionali” di tutti i talenti del paese in direzione Berlino, arbitraggi compiacenti (le giacchette nere erano scelte da una commissione che faceva a capo a Mister Stasi) e rigori “a richiesta” spesso fischiati a tempo abbondantemente scaduto. Un sistema costruito sulla manipolazione e sulla corruzione che garantì alla squadra della capitale dieci campionati di Oberliga consecutivi e il contestuale disprezzo della quasi totalità della popolazione tedesco orientale. I tornei erano talmente falsati che nel 1986, al termine di un Lokomotive Lipsia-BFC Dynamo Berlino (incontro terminato 1-1 e passato alla storia come “lo scandalo di Lipsia”) che aveva regalato a questi ultimi l’ottavo titolo nazionale, le critiche contro i maneggi arrivarono addirittura da alcuni membri del partito, ma alla fine il tutto si risolse con una semplice squalifica dell’arbitro Bernd Strumpf. Gli stadi, peraltro fatiscenti, si svuotavano sempre di più (a fine anni Ottanta la BFC DB aveva perso seimila spettatori rispetto alla decade precedente), riempiendosi solamente durante i derby contro i rivali dell’1.FC Union Berlino, i cui tifosi si ritenevano i veri depositari dell’anima operaia (e onesta) della capitale e che solitamente lasciavano gli spalti una decina di minuti prima del fischio finale quando l’ennesima farsa si era ormai consumata.
I giocatori si adattavano facendo buon viso a cattivo gioco, perché in fin dei conti erano dei privilegiati e lo stipendio che percepivano, a dispetto del loro dilettantismo sbandierato dal regime con notevole sprezzo del ridicolo (forse qualche tifoso della Roma ricorderà ancora i quarti di finale della Coppa Campioni 83-84, superati dai giallorossi non certamente passeggiando in campo), gli permetteva un tenore di vita superiore alla media. A volte però qualcuno tentava timidamente di esprimere la propria opinione; Andreas Thom, forse il miglior calciatore di sempre nella storia della BFC Dynamo Berlino (elemento con oltre 50 presenze nella nazionale della Germania Orientale, e 10 in quella unita), dichiarò una volta alla rivista della Germania Ovest Stern (il regime glielo permise in quanto giocatore simbolo del calcio della DDR) che “le persone cercano di scappare dalla Germania Est perché non amano la vita che conducono in questo ‘strano’ paese”. Da quel momento gli fu proibito di rilasciare qualsiasi tipo di intervista; quando Thom poté di nuovo parlare con la stampa il Muro era già caduto e lui era prontamente volato a Leverkusen dopo aver fatto staccare al club della Bayer un assegno da 2.5 milioni di marchi.

Il crollo della DDR ha causato la contestuale caduta della BFC Dynamo Berlino, che all’inizio della stagione 89-90, l’ultima della Oberliga prima della riunificazione (il campionato fu vinto dall’Hansa Rostock), aveva tentato di prendere le distanze da un passato fattosi improvvisamente scomodo mutando la propria ragione sociale in FC Berlino. “Diventeremo l’Ajax tedesco” aveva pomposamente proclamato la dirigenza di allora per evidenziare le nuove direttive lungo le quali si sarebbe mossa la politica del club, ovvero massima attenzione al settore giovanile con lo scopo di diventare il centro di raccolta privilegiato dei nuovi talenti calcistici di Berlino e dintorni. Non è andata così, come spesso accade quando si vola troppo in alto senza solide basi; l’impatto con la nuova realtà occidentale è stato traumatico, per l’ex BFC così come per la stragrande maggioranza degli altri club dell’Est, improvvisamente calati in un contesto socio-economico nel quale non potevano competere sportivamente (i migliori giocatori fuggivano tutti verso il più ricco occidente), finanziariamente (i bilanci erano color rosso fuoco) e soprattutto a livello relazionale, a causa di quella barriera psicologica successivamente ribattezzata Der Mauer im Kopf, il Muro nella testa.

Perché aldilà della retorica unificatrice all’insegna del “siamo tutti fratelli e sorelle” che infarciva i discorsi dei politici ma che dalle nuove generazioni è considerata nient’altro che aria fritta (quante volte ancora oggigiorno si sente inneggiare alla ricostruzione del Muro?), una volta abbattuto fisicamente il Muro di Berlino ha continuato ad influire pesantemente sulle vite di migliaia di tedeschi, sui loro rapporti e sul loro modo di relazionarsi con la società. L’Est era straniero nella propria terra, ignorato
e tollerato a malapena dall’Ovest. Nel suo romanzo “Il giorno dei morti” Cees Nooteboom parla di un “bizzarro stato liquidato e smantellato” in cui “non solo erano cambiate all’improvviso tutte le regole del gioco, ma il gioco stesso era cessato a un tratto, persone erano state strappate alle loro vite, ogni aspetto di quelle vite – giornali, abitudini, organizzazioni, nomi – era cambiato, quarant’anni erano stati accartocciati da un momento all’altro come un pezzo di carta”. Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.
Tornando alla BFC Dynamo Berlino, negli anni Settanta e Ottanta non c’era dirigente o manager o membro dello staff della società che non fosse pienamente coinvolto nelle attività del partito, e fu per questo motivo che quando l’Hertha Berlino, il club della parte occidentale della capitale, la settimana successiva alla caduta del Muro invitò allo stadio i direttivi della Dynamo e dell’Union quale gesto di simbolica riconciliazione, migliaia di persone disertarono gli spalti pur di non dover condividere quel momento con degli aguzzini che erano pure riusciti a farla franca. Una volta tagliato il cordone ombelicale che legava il club alla Stasi però tutto andò a rotoli, provocando l’inarrestabile caduta della squadra nei bassifondi del calcio tedesco; Terza Divisione nel 1991, Quarta nel 2000, addirittura Quinta nel 2002 (nel consiglio di amministrazione entrarono pure un paio di Hell’s Angels, tanto per dare l’idea del livello che si era toccato) prima che una promozione, l’unico raggio di luce negli ultimi quindici anni, la riportasse nell’attuale NOFV-Oberliga Nord.

Nell’era della Germania unita l’ex Dynamo Berlino non solo non è riuscita a mantenersi a livelli sportivi dignitosi, compito comunque non facile in un calcio sempre più orientato verso il denaro, ma non ha nemmeno saputo, e forse anche voluto, prendere definitivamente le distanze dal suo pesante passato. Nel 1999 il club ha ripristinato la vecchia ragione sociale, BFC Dynamo Berlino, in “onore dei gloriosi tempi passati”. Un’opinione, quest’ultima, sostenuta dalla maggioranza dei tifosi membri dei (pochi) gruppi di tifo organizzato della squadra, tristemente caratterizzatisi in questi anni per episodi di violenza, razzismo e per la plumbea ideologia politica che mischia slogan neo-nazisti ad altri che inneggiano al ritorno di Erich Mielke. Siamo ben lontani dal “progetto giovani” e dalla mentalità “all’insegna del fair-play” teorizzata dalla dirigenza qualche tempo fa. Né il tempo né la Federcalcio tedesca hanno comunque mai mostrato alcuna pietà nei confronti della BFC DB. Nel 2001 la squadra centrò la promozione in Terza Divisione, ma dovette rinunciarvi a causa delle mancanza di adeguate risorse finanziarie, con le casse societarie facevano registrare un deficit di 7 milioni di marchi. Durante la stagione successiva il club fu costretto adichiarare bancarotta, venendo retrocesso d’ufficio; dal momento che la stagione non era però ancora finita, e nonostante fossero state annullate tutte le partite disputate in precedenza dalla Dynamo, la Federcalcio obbligò comunque il club a disputare le partite rimanenti alla stregua di “incontri amichevoli”. Con tutti i giocatori della prima squadra svincolati a causa del fallimento furono schierate le riserve delle riserve (la seconda squadra giocava infatti nella Landesliga e non venne toccata) per incontri-farsa conclusi con punteggi tennistici. Quasi una sorta di piccolo contrappasso per un club macchiato indelebilmente dalla Storia.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it

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