Jair e il mistero della sconfitta

12 Ottobre 2007 di Stefano Olivari

Per il mondo Jair, per gli amici Jaja. A molti italiani questi nomi di battaglia non diranno niente, a qualcuno ricorderanno la stella della Grande Inter o Laurent Jalabert, grande campione delle corse di un giorno (ma non solo, tanto che fra i suoi trionfi c’è anche una Vuelta) nell’era Indurain. Per una generazione di brasiliani Jair, ‘quel’ Jair, significa soprattutto sconfitta, derrota, non proprio come l’ormai letterario Moacyr Barbosa, ma quasi. Jair da Rosa Pinto ha lasciato questa terra due anni fa, a 84 anni, per un’embolia polmonare, ma all’epoca abbiamo fatto fatica a trovare la notizia sui giornali italiani e solo l’archiviazione di vecchi articoli ce lo ha riportato adesso alla memoria. Eppure fra i tanti sedicenti o strombazzati inventori della punizione a foglia morta lui è uno dei più credibili, anche se non è per questo che è rimasto nella storia del Brasile. Ai bei tempi era conosciuto per il suo piedino piccolo (37, con le nostre misure) e pieno di talento, oltre che per i suoi lanci perfetti, anche se non è per questo che è rimasto nella storia del Brasile. Nato nel 1921, Jair giocò un po’ dappertutto: Madureira, Flamengo, Vasco, Ponte Preta, Palmeiras e Santos, lasciando dappertutto un buon ricordo, anche se non è per questo che è rimasto nella storia del Brasile.
Jair è rimasto nella storia del Brasile per la partita maledetta, la madre di tutte le sconfitte: l’incontro decisivo (non la finale, ma la partita decisiva del girone finale) del Mondiale 1950 contro l’Uruguay. Brasile: Barbosa, Augusto, Juvenal, Bauer, Danilo, Bigode, Friaca, Zizinho, Ademir, Jair, Chico. Uruguay: Máspoli; Gonzalez, Tejera, Gambetta, Varela, Andrade, Ghiggia, Pérez, Miguez, Schiaffino, Moran. Lo stadio è il Maracanà, il più grande del mondo, costruito per l’occasione: una capienza ufficiale di oltre 180mila, 50mila più del secondo dell’epoca (l’Hampden Park di Glasgow), tutto è pieno, tutto è grande. Al Brasile per vincere la quarta edizione della Coppa Rimet basta un pareggio, all’Uruguay serve la vittoria: è una storia che avrete ascoltato mille volte, così come lo svolgimento del dramma. Dal vantaggio di Friaca (assist di Ademir) al pareggio di Schiaffino (azione Varela-Ghiggia) fino al gol di Ghiggia (dribbling su Bigode e tiro sul primo palo, centrando i pochi centimetri lasciati scoperti da Barbosa). Due mesi prima, sempre a Rio, in amichevole, l’Uruguay aveva battuto il Brasile, ma nessuno se ne ricorda, forse nemmeno gli uruguyani (che volontariamente, volontariamente secondo la leggenda, persero le due successive partite di quel tour premondiale). Anni dopo normali eventi si trasformeranno in segni premonitori, per quall’ansia di dare un senso a tutto che hanno gli esseri umani: l’incidente al pullmann brasiliano entrando al Maracanà, con Augusto che si fa male alla testa, la gomitata di Obdulio Varela (il capitano, l’uomo che raccolse in fondo alla sua porta il pallone del vantaggio brasiliano andando lentissimamente verso il centrocampo, zittendo il Maracanà: anche questa già sentita, vero?) a Bigode, i titoli dei giornali, le poesie già composte per la vittoria, eccetera.
Jair anni dopo raccontò di aver chiesto a Dio una spiegazione per un dolore tanto grande. Si può perdere, ma non davanti a duecentomila persone sicure della tua vittoria. Di sicuro per il dio del calcio Jaja ha fatto tanto, come centrocampista (22 gol in 39 partite nella Selecao, dal 1940 al 1956) e come insegnante. Lui con il Santos stava terminando la sua parabola, un ragazzino la stava iniziando: il ragazzino era ovviamente Pelè, che la società decise di affiancargli perchè prendesse esempio da un professionista esemplare. Non aveva molto da imparare, Pelé, ma quel poco Jair glielo insegnò tutto. La vittoria e la sconfitta rimasero però un mistero.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

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