Il vero Fulgencio

28 Aprile 2011 di Alberto Facchinetti

di Alberto Facchinetti
Dieci anni dopo avrebbe intrapreso la carriera da allenatore e sarebbe diventato uno dei tecnici più importanti del calcio argentino. Ma nel 1949 Juan Carlos Lorenzo era soltanto un buon centrocampista: fu il primo straniero della Sampdoria a non fare le valigie subito e ad andarsene dopo la prima stagione. Tenne duro, il ragazzo.
Di carattere ne aveva da vendere, e rimase per altri tre anni ancora. Lorenzo era una bella mezzala, che segnava e faceva segnare. Il primo anno giocò poco, perché arrivò a stagione iniziata: soltanto otto partite condite comunque da due gol. Esordì in campionato nel marzo del 1949 in casa contro il Novara (1-3). La Samp aveva puntato sul ragazzo di Buenos Aires e anche lui credeva molto nelle sue qualità. Avevano ragione. Nel 1949-’50 giocò trenta partite e segnò sette gol, altrettanti ne realizzò la stagione seguente pur avendo giocato solo ventidue gare. L’ultimo suo campionato in Italia fu quello del 1951-’52, diciassette partite e tre volte a segno. In tutto el Toto Lorenzo mise in fila settantasette partite in quattro campionati, e mosse la rete diciannove volte. (…)
Nel 1958 ci fu la svolta della carriera. Il presidente del Maiorca Jaime Rosselló era alla ricerca di un allenatore per la squadra che allora militava in Tercera División. La dritta giusta gli arrivò da Alfredo Di Stefano che si trovava casualmente nell’isola in vacanza: “Nel Rayo Vallecano c’è un calciatore che ormai ha 35 anni e fa al caso suo. Si chiama Lorenzo”. Qualche anno prima Di Stefano e Lorenzo avevano frequentato insieme un corso per allenatori tenuto dal maestro inglese Walter Winterbottom. Rossellò ingaggiò el Toto come jugador-entrenador e insieme scrissero le pagine più belle del club. Per la prima volta nella storia
il Real Maiorca arrivò in Primera División. Alla prima esperienza da allenatore Lorenzo fece due promozioni consecutive.(…)
Nell’ottobre del 1962 venne ingaggiato dalla Lazio per sostituire in panchina Carlo Faccini. La squadra militava in B. Sin da subito emersero la sua personalità e le sue stranezze, dentro e fuori dal campo. El Toto era uomo intelligente ed istrionico. Molto professionale, ma ancora di più superstizioso. Quando le sue squadre perdevano bruciava tutte le maglie e gli scarpini indossati dai suoi calciatori. Costringeva l’autista del pullman che portava i giocatori allo stadio a cambiare strada qualora avessero trovato un gatto nero. E a passare con il semaforo rosso, perché questo gli portava bene. Non si era mai visto un allenatore del genere in Italia. Anche in campo le sue squadre erano aggressive, sempre al limite del regolamento, pronte ad ottenere e poi a difendere il risultato con le unghie e con i denti. “Tutti mi accusavano – spiegò la sua filosofia, ormai vecchio e ritiratosi in Argentina – di voler fare un gioco speculativo, che negavo il gioco d’attacco, che mandavo i miei giocatori in campo per fare male. Però il calcio è questo: se non vinci, il giorno dopo ti cacciano. Se vinci sei il re, sennò sei odiato da tutti”.
Con la Lazio il primo anno arrivò secondo nel campionato di serie
B, l’anno dopo la squadra finì ottava in serie A. Nel 1964-1965 firmò a sorpresa per i cugini della Roma, dove conquistò subito la Coppa Italia 1964, stagione in cui la finale venne disputata ad inizio del torneo seguente quando el Toto già sedeva in panchina. Ma fu per la Roma l’annata segnata dal disastro finanziario della società. Lorenzo fece quell’anno la famosa colletta del Sistina per raccogliere fondi. Nel 1966 tornò in patria al River Plate, dopo aver guidato “un branco di animali” ai Mondiali (così li definì il tecnico britannico Alf Ramsey dopo il match Inghilterra-Argentina, vinto dagli inglesi grazie anche ad un arbitraggio casalingo). Allenò i Milionari per un campionato. Intanto dal Maiorca arrivò una telefonata: “Mister, abbiamo bisogno di lei”. Andò sull’isola e salvò la squadra che rischiava la serie C. Nel 1968 tornò alla Lazio. Rimase tre stagioni e costruì la squadra che poi Tommaso Maestrelli guidò alla vittoria dello storico scudetto. Nel 1969 fece acquistare due giocatori dall’Internapoli: Giorgio Chinaglia e Pino Wilson. Proprio per il lancio del centravanti, che inizialmente appariva fuori forma e un po’ grezzo tecnicamente, Lorenzo fu fondamentale (…). Nel 1984 l’ormai ex centravanti, di ritorno dagli Stati Uniti, da presidente della Lazio ingaggiò il suo vecchio mister. (…)
Il primo giorno si presentò in spogliatoio mostrando ai ragazzi un pezzo di carta.
Sosteneva el Toto Lorenzo che fosse un telegramma di De Gasperi, che gli aveva scritto per congratularsi del nuovo incarico. I ragazzi si guardarono esterrefatti, non dissero niente. Si misero la tuta ed uscirono per l’allenamento. Era settembre, la preparazione precampionato era già stata fatta da Carosi, di certo non si sarebbero aspettati di farne una seconda. Lorenzo aveva visto una squadra in pessime condizioni fisiche e programmò il richiamo che di solito si faceva in dicembre. Sì, per quasi tutto il mese la squadra si allenò due volte al giorno come fosse agosto. L’esordio di Lorenzo in panca fu positivo: in casa la squadra riuscì a pareggiare contro l’Inter, al gol di Bruno Giordano rispose subito Spillo Altobelli. Così el Toto, che era ritornato all’Olimpico indossando una camicia blu a pallini bianchi, decise di non cambiarsi più il vestito. Perché quella camicia gli portava evidentemente bene. La prima vittoria però arrivò soltanto quattro partite dopo contro la Cremonese.
La tattica studiata da Lorenzo era alquanto particolare. Ai suoi difensori chiedeva di ungersi le mani di pomata e quindi di sfiorare gli occhi degli attaccanti per impedire loro di vedere. Oppure ordinava di mettersi una foto della moglie dell’attaccante avversario nei calzettoni e mostrarla al giocatore durante il match per innervosirlo e portarlo così all’espulsione. I mezzi che utilizzava per vincere le partite, senza riuscirci (va detto) perché in diciotto gare portò a casa la posta intera solo due volte, non erano solo questi. Spesso pensava a degli strani riti propiziatori. Come quello di accendere fuochi in spogliatoio per scacciare gli spiriti maligni. Tanto che quando la squadra ritornava in spogliatoio dopo il riscaldamento prepartita, l’aria era davvero irrespirabile.
Riuscì comunque a non perdere il derby. Scelte tattiche azzeccate?
No. La gara la “vinse” anche questa prima di giocarla. Si spogliò con i calciatori, uscì in mutandoni ascellari e con un mangianastri
che sparava musica a tutto volume aspettò i giocatori della Roma che rientravano in spogliatoio per fare l’appello. Li sfidò, cantando a squarciagola e mormorando i suoi soliti incantesimi. Arrivò un
punto che smosse di poco la classifica. Il miracolo però lo fece proprio contro la Samp. Durante la settimana obbligò il suo difensore Daniele Filisetti a dimagrire cinque chili perché voleva che il giocatore si presentasse in campo la domenica successiva con lo stesso peso dell’avversario che doveva marcare, Trevor Francis. Ce la fece, con il risultato che Filisetti in campo manco si reggeva in piedi. Il Doria già nel primo tempo s’era portata sul 2-0 (Mancini, Salsano). Durante il riposo, Lorenzo trovò il giusto rimedio. Questa volta sì. Fece levare la maglia rossa al suo portiere Fernando Orsi, perché secondo lui gli attaccanti doriani avevano tirato in porta così tanto perché attratti da quel colore. La Lazio riuscì a pareggiare 2-2: Enrico Calisti e João Batista. Ma fu l’inizio della fine. Arrivarono infatti sette sconfitte una in fila all’altra. Interrotte da un pareggio casalingo con l’Ascoli e un’altra, ultima e finale sconfitta, con il Napoli.
In quei giorni che precedevano la partita con i partenopei, el Toto
andò dichiarando che non avrebbe marcato a uomo il connazionale Diego Maradona. Invece mandò allo sbaraglio il suo giovane centroc

ampista Francesco Fonte e Diego ne fece tre. Il Napoli vinse 4-0. Era il 24 febbraio 1985: finì qui l’avventura del Toto Lorenzo alla Lazio, iniziata tanti anni prima. Nella panchina laziale, sommando le tre esperienze in tempi diversi, si sedette ben 185 volte. Nel 1985 Leo Gullotta si ispirò alla sua figura per interpretare l’eccentrico allenatore Juan Carlos Fulgencio nel film “Mezzo destro, mezzo sinistro”. Ma viene citato direttamente (e forse anche indirettamente) anche nei racconti a sfondo calcistico del suo connazionale Osvaldo Soriano..
Il 14 novembre 2001 il Maestro morì a Buenos Aires. Aveva 79 anni. Avrebbe voluto essere cremato e che le sue ceneri fossero sparse alla Bombonera, ma la moglie fece di testa sua e ora si trova sepolto al cimitero di Belgrano in calle O’Higgins.

Alberto Facchinetti
(estratto del capitolo su Juan Carlos Lorenzo contenuto nel libro ‘Doriani d’Argentina’, di Alberto Facchinetti per Edizioni Cinquemarzo: per informazioni contattare l’autore, scrivendo a alberto.facchinetti1@virgilio.it o l’editore scrivendo a info@cinquemarzo.com)

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