Basket
Il progetto Cvetkovic
Stefano Olivari 01/12/2009
Domenica pomeriggio è stato emozionante vedere Chuck Jura entrare al Palalido e dopo trenta anni venire riconosciuto in un secondo da tutti, da Sandro Gamba ai giovani tifosi dell’Armani (perché ogni tifoso ha un padre), passando per grandi personaggi come Toni Cappellari ed Alberto Merlati (De Simone-Merlati-Burgess, il leggendario ‘Muro di Cantù’: scudetto 1967-68, con in campo un giovane Recalcati). Interessante è stato anche ascoltare i giudizi sul basket italiano da parte di chi non vedeva una sua partita da metà degli anni Ottanta. Era la stagione dell’ultimo urrah al Master Valentino Roma, con pagamento in pelliccie…
Senza andare ad analizzare le cause, di cui si è parlato mille volte, la realtà di Milano-Pesaro e di quasi tutte le altre partite professionistiche europee è evidente: una serie infinita di pick and roll, difese a uomo con qualche pennellata di match-up per far vedere la mitica mano dell’allenatore, ragazzi di 2,11 come Sakota che tirano solo da 8 metri (prendendoci anche, il suo terzo quarto è stato spaventoso), centri che non guardano il canestro, registi bravissimi tecnicamente ma portati a masturbare il pallone. Poi l’Armani era senza Acker e Petravicius, la ScavoSpar ancora con lavori in corso e comunque margine per schiodarsi dallo zero in classifica: tante altre spiegazioni per un match che è stato comunque avvincente e degno di essere visto. Prendiamo il tutto come fotografia di un movimento: dagli otto ultrà pesaresi ai trenta milanesi, nella tristezza di un ambiente che non riesce a ritrovare un’identità al di là di un’affluenza in ogni caso modesta per una metropoli. A meno che l’identità non sia quella di Pozzecco ‘uomo immagine’, fra una telecronaca e l’altra: immagine forse per l’Hollywood o per un basket che assomiglia ad una Nbdl con costi di gestione da piccola Nba. E’ il basket dei Branko Cvetkovic, paracadutato in campo appena dopo la firma: l’ala serba ha difeso discretamente su Mancinelli e Maciulis ma attaccato in modo imbarazzante, tirando con 1 su 10 tutte le volte in cui non ha commesso infrazione di passi. Otto squadre negli ultimi cinque anni barcamenandosi fra fallimenti tecnici e finanziari, un precario globalizzato del mondo odierno. Anche se l’ultima impressione inganna, perchè Cvetkovic è uno vero: nel giro della nazionale serba (di nascita sarebbe bosniaco), ha combinato buone cose più da guardiona che da ala e si è fatto notare nel Girona di un paio di stagioni fa arrivando da protagonista alla finale di Uleb Cup. Il punto non è però la qualità di Cvetkovic, ma il suo significato: tappabuchi per chi se lo può permettere, uomo senza ruolo fisso e senza grandi aspirazioni nel mercato sempre aperto. Evitando operazioni protezionistiche fuori tempo massimo o altri tipi di discriminazioni, basterebbe impedire i movimenti di mercato durante la stagione per avere un roster conosciuto almeno dai propri tifosi. Perché oltre agli agenti e magari anche a qualche dirigente in torta, ci sfuggono i beneficiari di tutto questo circo. Non gli allenatori, costretti a giocare con due giocatori affidabili in mezzo ad un mare di journeyman. Non i giocatori stessi, schiavi dell’ultima chiamata e di statistiche gonfiabili e gonfiate. Auguriamo a Cvetkovic di diventare una bandiera di Pesaro, ma sarà difficile. E non solo perché il suo contratto scade a giugno.
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