Il piacere di Touré

19 Marzo 2009 di Alec Cordolcini

di Alec Cordolcini

1. Giocare titolari con la maglia del Barcellona non corrisponde propriamente all’idea del calciatore sottovalutato. Eppure di Yayà Tourè molti non sembrano ancora aver compreso appieno il vero valore. Un giocatore dal carattere non facile, talvolta scontroso, altre volte un pizzico supponente. Un giocatore vero, però, che ha percorso la strada verso la vetta passo dopo passo, gradino su gradino, privilegiando scelte mirate alla propria formazione e alla propria crescita professionale, spesso a scapito della visibilità. Tanto se c’è il talento, sembra raccontare la storia di Yaya, al Barcellona di turno si arriva comunque. Il centrocampista ivoriano si è raccontato in un’intervista al giornalista olandese Jan Hauspie. Riportiamo i passi più significativi di un dialogo pieno, contrariamente a quanto di norma accade quando ai protagonisti del pallone si mette sotto il naso un microfono, di spunti interessanti.
2. Yayà Tourè conosce l’Europa nel 2001. Ha 18 anni e sbarca nelle Fiandre Orientali, a Beveren, dove lo attende il francese Jean-Marc Guillou e il suo progetto “Académie”, che prevede anno dopo anno il trasferimento di tutti i migliori prodotti della scuola calcio ASEC Mimosas di Abidjan direttamente in una squadra professionistica militante nella massima divisione di un campionato europeo. “Un’esperienza durissima, ma fondamentale. Ogni calciatore africano che sbarca in Europa lo fa per sfondare. La difficoltà risiede nel comprendere i tempi e i modi per farlo. Se il sottoscritto o qualcuno dei miei connazionali fosse andato direttamente in Spagna o in Francia, avrebbe avuto molti più problemi. I giocatori non sono macchine, soprattutto quando sono ancora adolescenti, e pertanto il fattore ambientale non va sottovalutato. A Beveren non ci è stato solo concesso il tempo per assorbire movimenti, moduli, schemi e mentalità del calcio europeo, ma ci è stato soprattutto insegnato come deve vivere un calciatore professionista. Racconto un episodio. Durante certi allenamenti pomeridiani controllavo continuamente il termometro all’ingresso degli spogliatoi: zero gradi, meno due. Il vento mi tagliava la faccia, non sentivo più le dita delle mani, allora raccoglievo le mie cose e correvo dritto sotto la doccia lasciando l’allenamento a metà. Il tecnico del Beveren Herman Helleputte mi rimproverava di essere troppo impulsivo. Sicuramente ero poco professionale, e vedevo il mondo semplicemente in bianco e nero, senza sfumature. Ma un club di provincia come il Beveren ti offriva la possibilità di ritornare sui tuoi passi e capire gli errori. In realtà più grandi sarei semplicemente finito fuori rosa”.
3. Nell’inverno del 2004 Yaya si sposta in Ucraina per giocare nel Metalurg Donetsk. “Mi voleva il Paris Saint-Germain in prestito, ma il Beveren aveva bisogno di soldi e ha condotto le trattative per conto proprio. L’Ucraina non è certo il sogno per chi desidera diventare calciatore professionista, specialmente se africano. Clima gelido, la gente parla solo russo o ucraino ed è piuttosto chiusa. Ma l’esperienza è stata importante perché mi ha formato mentalmente”. La via di fuga si chiama Atene, facilitata da un’estate 2005 in cui Yaya prolunga le proprie vacanze in Costa d’Avorio senza autorizzazione e, soprattutto, senza possibilità di essere reperito. Puntuale arriva la cessione all’Olympiacos. “Volevo un campionato di livello medio come quello olandese o quello greco prima di puntare ad un grande torneo. E poi ad Atene c’era Trond Sollied, che conobbi in Belgio quando allenava l’Fc Bruges e che mi aveva cercato più volte, anche se l’affare non si concretizzò mai a causa di divergenze economiche con il Beveren. Sollied è l’allenatore tatticamente più preparato che abbia mai incontrato. Ogni volta che affrontavamo l’Fc Bruges era un mezzo disastro, sembravamo una squadra al primo allenamento stagionale. Dopo anni da mezzapunta, in Grecia mi ha impostato interno in un centrocampo a tre. Se due stagioni dopo mi sono ambientato subito nel 4-3-3 del Barcellona, lo devo a lui. Sollied insegna un calcio offensivo ma estremamente organizzato. Un campione ti può far vincere la singola partita, non un trofeo. Noi ivoriani lo abbiamo sperimentato nella finale di Coppa d’Africa 2006 contro l’Egitto. Dalla nostra parte c’era Didier Droga, dalla loro Mohamed Abou Trika. Hanno vinto loro, perché possedevano una disciplina sconosciuta a buona parte delle compagini africane”.
4. La tappa successiva si chiama Principato di Monaco, nonostante molti ritenessero che la destinazione naturale del giocatore sarebbe stata Londra, sponda Arsenal, per potersi riunire con il fratello maggiore Kolo (un terzo Tourè, Ibrahim, classe ’85, gioca nel Metalurg Donetsk); il veto arriva però da Arsene Wenger, insoddisfatto della scarsa intensità mostrata da Yaya in allenamento. Gli telefona anche Drogba per raccontargli il mondo-Chelsea, ma l’ivoriano decide di ascoltare nuovamente i consigli di Guillou (“continua a fare un passo alla volta”), nel frattempo licenziato dal Beveren a causa di risultati ritenuti poco soddisfacenti dalla dirigenza. “Un giornalista francese mi chiese come si faceva a rinunciare alla corte di Real Madrid, Manchester United e Chelsea. Non è stato facile, lo ammetto, ma era troppo presto. Volevo un club francese o italiano prima di compiere l’ultimo decisivo salto. Con il tecnico Laszlo Boloni fu antipatia a prima vista. Un uomo ombroso e dal carattere difficile. Non ci conoscevamo, io ero un acquisto della dirigenza, non suo. Arrivavo dal Mondiale in Germania, all’inizio mi teneva fuori con la scusa che avevo bisogno di riposo. Mi vedeva esterno desto di centrocampo, non esitai a dirgli che non era la mia posizione. Venni a sapere dai miei compagni di squadra che la mia impulsività lo aveva irritato parecchio. Dopo pochi mesi venne licenziato e sostituito da Laurent Bande; con lui 5 reti, il mio primato personale, 5 assist e la fine di tanti problemi. Sarei rimasto in Francia volentieri se non fosse arrivata la chiamata del Barcellona”.
5. Barcellona rappresenta lo zenith della scalata di Yaya Tourè. L’esordio al Camp Nou con gol (fantasma) all’Athletic Bilbao dopo un missile da fuori area puntualizza subito di che pasta è fatto l’ivoriano. “Qui c’è il calcio con la C maiuscola. Piacere puro. In Frank Rijkaard ho scoperto un grande allenatore, come mentalità molto simile a Sollied. La partita vuole sempre giocarla, l’idea è quella di un calcio dominante. La differenza principale è che non sempre il norvegese ha potuto disporre dei giocatori che desiderava. Con Guardiola inizialmente ho perso il posto da titolare, ma me lo aspettavo. Arrivava dalle giovanili, ha portato con sé alcuni suoi pupilli, uno dei quali, Sergio Busquets, giocava nella mia posizione. Incombevano i preliminari di Champions League, c’era poco tempo per conoscersi, e da parte mia per capire come lui intendeva giocare. Logico quindi che il mister puntasse su giocatori di comprovata fiducia. Anche quest’anno però il calcio che pratica il Barcellona è il migliore. E’ il calcio con il quale sono cresciuto, quello di Guillou, fatto di passaggi, sempre creativo. A Beveren non facevamo altro. Non mi piace il gioco eccessivamente strutturato sulla fisicità e sull

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