Il passaggio indietro vietato

5 Dicembre 2007 di Roberto Gotta

1. La quasi sconfitta dei New England Patriots nel Monday Night è una vittoria. Punto e basta: tra qualche mese, se i Pats davvero riusciranno a chiudere imbattuti la stagione, del pericolo scampato nel fornello di Baltimore si ricorderanno in pochi, e se lo faranno sarà forse solo per menzionare il momento in cui questo dominio è stato messo maggiormente in pericolo. I Ravens, non solo motivati ma anche ben preparati e, in certi momenti, trascinanti, vedi il touchdown su corsa di Willis McGahee (138 yard) nel terzo quarto che aveva portato Baltimore avanti 17-10. Come è ovvio, e come si leggerà anche più sotto, non è chi conquista più yard che vince la partita, ma le 376 dei Ravens sono quasi 100 in più di quelle che New England concede di media, ed è certamente un dato che sarà stato analizzato dallo staff tecnico. Il coach Bill Belichick viene sempre ritenuto un genio, ma in un paese che al contrario di altri (…) i furbetti li mette spalle al muro, invece di eleggerli a modelli di vita con l’occhiolino pronto, la sua reputazione ha subito una discreta botta dopo l’episodio dello spionaggio a inizio stagione. Belichick, comprensibilmente, se ne strafrega: come gran parte dei grandi allenatori, pare più infuriato quando vince che non quando perde, probabilmente perché teme rilassamenti, ma di fatto la sua espressione facciale è sempre quella, manco fosse il grottesco provino di Renato Pozzetto in Sono fotogenico, in cui l’aspirante attore ha sempre il medesimo viso, che debba interpretare uno che ha appena vinto alla lotteria o uno cui sia morto il cane.
2. La vittoria dei Pats è stata favorita da un episodio davvero fortuito: quarto periodo, 1’48” alla fine, quarto tentativo e uno per New England sulla linea delle 30 dei padroni di casa. L’azione parte e il Qb Tom Brady viene steso, il che vorrebbe dire palla ai Ravens e partita pressoché chiusa, ma un attimo prima della partenza della palla (snap) Rex Ryan, allenatore della difesa di Baltimore, aveva chiamato timeout, per cui l’azione è stata annullata, e alla ripresa del gioco New England ha conquistato il primo down. Di Ryan riparleremo presto, va intanto segnalato un doppio particolare: prima di tutto, solo l’head coach può in teoria chiedere un timeout, ma pare che l’arbitro, dando ovviamente la schiena alla linea laterale, non abbia potuto accorgersi che a farlo era stato un assistente. Inoltre, Ryan voleva impedire lo sviluppo dell’azione perché aveva visto qualcosa che non gli piaceva: ma perché? Semplice: perché i Pats hanno giocato a lungo con l’attacco no-huddle, quello in cui una squadra non si “riunisce” prima di cominciare l’azione successiva ma riceve le istruzioni direttamente sulla linea, e questo accorciamento dei tempi impedisce alla difesa di eseguire sostituzioni costanti, come i Ravens (e molti altri team) fanno.
3. Ancora sull’argomento timeout. I Washington Redskins hanno perso male la partita (contro Buffalo) che nelle loro intenzioni doveva essere quella degli onori a Sean Taylor, il safety assassinato qualche giorno prima (a proposito: per quel che si sa, il delitto non ha niente a che vedere con il passato non sempre limpido del giocatore, e dovrebbe essere un “semplice” tentativo di furto finito male). In vantaggio per 16-14, Washington ha visto i Bills arrivare fino alla linea delle 34 a 4″ dalla fine. Field goal da 51 yard in vista, dunque: alla distanza della palla al momento dello snap bisogna infatti aggiungere 7 yard per il punto in cui il calcio viene effettivamente effettuato, e le 10 della end zone. Joe Gibbs, coach dei Redskins, ha chiamato timeout un attimo prima che il kicker, Rian Lindelli, si preparasse. E’ una prassi che nel basket è abituale prima di tiri liberi decisivi, e si sta diffondendo sempre più nel football: in pratica, dai al kicker un minuto in più per riflettere su quel che sta per fare e dunque, per certi versi, per sentirsi addosso pressione. Solo che Gibbs ha chiamato un altro timeout non appena terminato il primo, e questo non è concesso dalle regole. Per cui 15 yard di penalità ai Redskins, palla sulle 19, field goal ora molto più facile, 17-16 Bills.
4. Gli onori a Taylor erano però stati resi in una splendida maniera, da Gregg Williams, allenatore della difesa: ben sapendo che anche in caso di insuccesso ci sarebbe stata tutta la partita davanti per riprendersi, Williams ha deciso che per la prima azione la difesa sarebbe stata mandata in campo con dieci uomini. L’undicesimo, spiritualmente, sarebbe stato proprio, da lassù, il safety assassinato. Bellissimo gesto di onore, e non è stato certo il guadagno di 22 yard di Buffalo contro una difesa con l’uomo in meno a determinare un paio di ore dopo la sconfitta dei Redskins.
5. Nel mondo dei college, quel che si temeva è successo. Una settimana dopo avere dominato Kansas, Missouri è stata schienata 38-17 da Oklahoma, mentre West Virginia perdeva 13-9 contro Pitt. Una vittoria di MU e WVU le avrebbe messe in una posizione inattaccabile come numero 1 e 2 e dunque avversarie nel BCS Championship Game del 7 gennaio a New Orleans, la “finale” del college football. La sconfitta ha cambiato tutto: fuori entrambe dal BCS, che ora ospiterà invece Ohio State e Louisiana State. E la questione, determinata dalla graduatoria del comitato BCS, ha come ogni anno suscitato perplessità. Vediamo perché, analizzando le situazioni delle squadre, una per una. Ohio State: ha perso solo contro Illinois, che è poi andata al Rose Bowl. Louisiana State: ha perso due volte, entrambe dopo tre tempi supplementari, ma sabato ha battuto Tennessee 21-17 nella finale della Southeastern Conference. Touchdown decisivo di Jonathan Zenon, che ha intercettato e riportato in end zone un lancio del Qb dei Vols, Erik Ainge, nipote del general manager dei Boston Celtics che era presente al Georgia Dome. Missouri: due sole sconfitte, entrambe però contro Oklahoma. West Virginia: due sconfitte, grave e invalidante quella contro Pitt che era nettamente sfavorita (e inferiore). Georgia: due sole sconfitte, ma nemmeno finalista della Southeastern Conference. Oklahoma: due sole sconfitte, e due vittorie contro Missouri. Southern California: due sole sconfitte, ma… non se l’è filata nessuno. Kansas: una sola sconfitta, ma contro Missouri che a sua volta ha perso due volte. Hawaii: 12 vittorie e zero sconfitte, ma non ritenuta all’altezza. Giocherà sì al Superdome, ma nel pur prestigioso Sugar Bowl dell’1 gennaio. Mettendo in fila questi bilanci, è stato deciso dunque che Ohio State-Louisiana State sarà la “finalissima”, in campo quasi neutro visto che Baton Rouge, la capitale della Louisiana e sede di LSU, è a 45 minuti d’auto. Buffo: anche nel 2003, quando i Tigers vinsero il BCS Championship Game e dunque il titolo nazionale, la partita si era disputata sotto il cupolone bianco cemento di New Orleans.
6. Non verrebbe quasi neanche più da meravigliarsi, a leggere e sentire certe sciocchezze, oltretutto involtinato dentro un corposo strato di pregiudizio ideologico. Ci riferiscono infatti persone affidabili che la scorsa settimana, alla presentazione milanese di un libro sugli sport minori, sarebbe stato espresso dal tavolo il seguente concetto (le parole potrebbero non essere esattamente queste): “Il football americano è l’emblema della pacchianeria americana perché è giocato tutto in avanti, il passaggio indetro è infatti vietato”. Accertato che non fosse uno scherzo, cadono braccia, orecchie ed altre parti sporgenti: il passaggio all’indietro, infatti, non è per nulla vietato, nel football, ed è grottesco e paradossale che una porcheria del genere, utilizzata come ovvio come arma anti-americana, sia stata espressa nei medesimi giorni in cui, con ritardo mostruoso rispetto alla segnalazione fatta proprio qui su American Bowl, un quotidiano metteva in evidenza un filmato in cui nell’ultima azione di una partita di college i passaggi all’indietro erano addirittura 15 o 16. Tra l’altro, il pregiudizio anti-americano si esprime anche in un altro luogo comune di questo ambiente ‘culturale’, quando cioé si ricorda che nel football l’obiettivo è l

a conquista del terreno e dunque è sport perfettamente adeguato alla mentalità imperialistica (ma vai, che parolone!) statunitense. Giusto? Sbagliato. Nel football l’obiettivo è segnare un touchdown, che si può segnare se gli avversari sono così graziosi da regalarti palla ogni volta ad una yard dalla linea, e del resto se contasse guadagnare terreno la vittoria alla fine verrebbe assegnata a chi conquista più yard, non a chi segna più punti. Dunque, con modalità parzialmente diverse, il football ha il medesimo obiettivo del rugby, sport che piace (giustamente) a molti e che immaginiamo sia in difficoltà di fronte ai tanti che cercano di appropriarsene per secondi fini, vedi il caso dell’assurdo uso del termine “terzo tempo”, che nella palla ovale ha significato e modi ben più nobili, per definire la stretta di mano calcistica. Detto per inciso, nel football americano, in Italia, il saluto a centrocampo delle due squadre a fine gara esiste da sempre. E per chiudere, prima di diventare insopportabili: normalmente, assurdità come quelle citate non meriterebbero neppure di essere menzionate, perché si dà loro importanza, ma siccome le si ascoltano e le si leggono troppo di frequente prevale il concetto, qui, che si debba proteggere (sì, proteggere) dalle bugie e dai travisamenti il lettore meno informato, specialmente se vaselinato dall’accondiscendenza ideologica verso chi gliele propina. Il football può piacere o meno, e può anche essere criticato per certi suoi aspetti. Ma le bugie no, per favore.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it
http://vecchio23.blogspot.com

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