Il guado dei Lakers

23 Maggio 2012 di Stefano Olivari

2. Il ‘manca un regista’ dei vecchi spettatori fuori da ogni stadio di ogni sport di ogni parte del mondo si può applicare anche ai Lakers di questa stagione. Fisher era ormai solo un guru da spogliatoio e l’arrivo di Sessions non è stata una mossa strampalata, solo che Sessions si è dimostrato un ottimo e dinamico penetratore da stagione regolare ma a livello playoff è stato molto ridimensionato. Non essendo nemmeno questo grande creatore di gioco, Bryant gli preferiva Blake che da tiratore quale è sapeva almeno sfruttare i suoi scarichi. In difesa invece insufficienti sia Sessions che Blake, mentre il discorso sulla personalità non può nemmeno iniziare. Nei Lakers, ma il discorso sarebbe perfetto anche per gli Heat, quallo che noi chiamiamo playmaker non deve essere un genio del basket ma uno di personalità che impedisca al Kobe o al LeBron della situazione di palleggiare per 20 secondi per poi tirare (e spesso segnare, si tratta di fenomeni) con la mano in faccia. In tutti questi bei discorsi il convitato di pietra è ovviamente Chris Paul, che Kupchak aveva ingaggiato prima che il dirigismo di Stern facesse saltare l’operazione.

3. Mike Brown, formatosi alla scuola Spurs e poi capoallenatore nei Cavs di LeBron James, sa cosa siano le gerarchie e quindi non ha avuto problemi nel rapporto con Bryant. Addirittura l’ha messo in panchina in una fase del quarto quarto di garacinque con i Thunder, mentre i Lakers erano sotto di 6 ma ce la potevano ancora fare: roba che con lo stesso Phil Jackson avrebbe provocato un ammutinamento del Mamba ma che dopo l’eliminazione è stata messa in mezzo a mille altre considerazioni. In generale ha dato più enfasi alla difesa, ma non è che l’anno scorso i Lakers non difendessero, senza buttare via tutti i giochi del passato (primo fra tutti il famoso triangolo, che soprattutto nei minuti con Gasol leader tecnico si è continuato a vedere) in attacco. Non ha mai commesso peccati di overcoaching, come del resto quasi nessun allenatore NBA, ma nemmeno ha dato alla squadra qualcosa in più a livello emotivo o tecnico. Al di là del contratto, uno che si può tenere o cambiare: non è né il problema né la soluzione.

Stefano Olivari, 23 maggio 2012

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