I rumeni di Ceausescu e gli africani di oggi

12 Agosto 2015 di Dominique Antognoni

È semplicemente pazzesco quello che accade. Ogni giorno ti dici che, per pudore, la smetteranno: e invece no. In Italia tutti parlano del comunismo senza mai averlo vissuto (parliamo di comunismo, non di fare il comunista in un paese capitalista, c’è una bella differenza) e di cosa si dovrebbe con e contro l’immigrazione. Sorvoliamo sul comunismo da salotto, fa ridere e basta. Semmai, ci torneremo, tanto d’estate ci sta tutto. Per una volta occupiamoci dell’immigrazione per come l’abbiamo vissuta noi, in maniera diretta, ovvero non dal punto di vista del morbido e cotonato signore che sorseggia una spremuta a Forte dei Marmi in una casa acquistata dal nonno, l’ultimo della famiglia ad aver lavorato.

Facciamo un passo indietro: l’esistenza del comunismo implicava automaticamente la povertà assoluta e, di conseguenza, la possibilità di richiedere asilo economico, nel caso riuscissi ad arrivare in un paese capitalista. Tradotto, ti accoglievano perché avevi vissuto il comunismo ed eri traumatizzato (che poi erano e sono traumi veri). “Poveretto, ora é tutto finito, andrà bene”, pareva che ti dicessero una volta che firmavi la richiesta. Esempio: per un miracolo riuscivi a fuggire (quasi impossibile, al confine ti sparavano i tuoi, in simpatia), oppure ad ottenere il visto per la Germania Federale, l’unico grande sogno per gli abitanti dei paesi comunisti (da ricordare che nessun paese era comunista per scelta). Andavi nella prima sezione di polizia e chiedevi asilo economico. Accadeva che ti portavano in un albergo e per sei lunghi mesi ti offrivano vitto e alloggio: in cambio, dovevi semplicemente dimostrare di essere all’altezza di un paese come la Repubblica Federale. Dovevi comportarti bene, essere tranquillo, educato, silenzioso: soprattutto silenzioso e rispettoso delle regole. Tu, ovviamente, per far capire che puoi e vuoi a tutti i costi diventare un cittadino capitalista, non sapevi più come dimostrarlo: eri disposto a qualsiasi prova ed esame. In questi sei mesi avevi a disposizione tutto, perfino dei professori che ti insegnavano il tedesco.

Finiti i sei mesi, passavi davanti ad una commissione che ti esaminava attentamente. Ogni richiedente di asilo aveva un dossier dove veniva annotato tutto, perfino quante birre bevevi. La paura di essere rispediti indietro era tanta da far diventare astemi ubriaconi cronici. Mettiamo che ti dessero il permesso di restare: rimanevi comunque sotto osservazione perché i tedeschi sono mica fessi. Di solito accadeva che gli uomini si trovavano subito una frau Hana e si accasavano. Il gioco era assai facile: lo si sapeva che in Germania gli uomini erano assai poco focosi, che si faceva sesso solo il sabato sera, motivo per cui i rumeni ed i serbi avevano gioco facile con le donne di Gunther e Urs. Sistemato il capitolo casa, si trovavano un lavoro da manovale (oppure ingegnere, per chi aveva studiato nel paese di origine, dopo alcuni esami) e si rigava diritto. Le donne avevano una vita più dura e meno scelta, solitamente finivano per fare le pulizie o per vendere salsicce, ma erano felici che nemmeno avessero vinto alla lotteria (be’, in pratica avevano vinto).

Mai una furbizia, mai una infrazione, perché il terrore di dover lasciare il mondo dorato del capitalismo (che per molti significava un pacchetto di sigarette decenti, la carne a tutte le ore senza code infinite e una bottiglia fresca di Coca Cola) ti imponeva un autocontrollo spinto oltre ogni immaginazione.

Ora, a voi pare che oggi i richiedenti di asilo economico (siamo seri, lasciano Africa per via della povertà, mica per ragioni politiche) si comportino allo stesso modo? Non bollateci come razzisti, perché l’articolo non contiene nemmeno mezza parola in tal senso. È una semplice domanda: vi pare che i richiedenti abbiano la voglia di dimostrarci che possano far parte del mondo occidentale? Qualche tempo fa, un signore ci raccontò che un richiedente d’asilo economico, dopo nemmeno due giorni in Italia, iniziò a urlare a Lampedusa: “Vorrei sapere come si sono spesi i soldi che lo Stato ha incassato dai cittadini, è una vergogna come siamo stati accolti”. Secondo voi, prima del 1989, un rumeno avrebbe osato chiedere una cosa del genere a Magonza? No, anche perché il seguito sarebbe stato assai spiacevole: il sergente Ullrich avrebbe caricato Gheorghe Mihai sul primo treno, destinazione Romania. Gli avrebbe augurato buon rientro a casa e buona fortuna. Certo, dandogli una bottiglietta d’acqua fresca e un paio di panini, secondo la legge. Così da tornare in buone condizioni nel suo paese d’origine. Dove il partito comunista, da sempre dalla parte del cittadino, l’avrebbe accolto con un paio di sberle. Ovviamente stiamo scherzando: le sberle erano a centinaia e il programma educativo continuava per mesi, magari collaborando ‘volontariamente’ alla costruzione di un canale o all’estrazione del carbone.

(Articolo ripubblicato dopo che il bug di WordPress aveva cancellato la precedente versione)

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