I più grandi di un basket modesto

5 Marzo 2010 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
Cosa vuole dire ‘non avere la mentalità internazionale’? In giornalistese significa che maramaldeggi in patria ma che appena metti fuori la testa dal paesello le proporzioni cambiano, solo che non lo si può scrivere perchè non si deve sminuire l’importanza del vaghissimo ‘movimento’.
Se l’Inter domina in Italia da cinque anni mentre in Europa non raggiunge le semifinali di Champions dal 2003, al netto di errori arbitrali, infortuni, Mancini che non aveva la famosa mentalità internazionale, significa che circolano squadre più forti di lei e che in Italia le sue avversarie fanno pena. Merito del Barcellona della situazione e demerito della Juventus o del Milan, intendiamoci, i nerazzurri non possono che fare il loro.
Stessa cosa nel basket, con molti addetti ai lavori che non trovano più aggettivi per descrivere la grandezza del Montepaschi anche in prospettiva storica. Contando anche sull’ignoranza dei lettori: la Varese delle dieci finali di Coppa Campioni consecutive allora cos’era? O la Cantù che vinceva ogni coppa con otto ragazzi dell’oratorio (poi una volta all’oratorio ci andavano i Marzorati, ma è un altro discorso) più due americani? Il risultato di ieri sera a Tel Aviv, che esclude Siena dai quarti di finale di Eurolega, è in parte bugiardo perchè il distacco è aumentato nel minuto finale quando si sarebbe almeno dovuto difendere il più quattro del PalaSclavo. Come era maturata in circostanze particolari (però non è che i tiri di Llull siano fortuna mentre quelli di Sato scienza esatta) la sconfitta di Madrid. Ma l’eliminazione dice anche che una versione pallida del Maccabi, piena di buoni giocatori che in Italia però hanno lasciato poche tracce (Blutenthal a Treviso e Bologna, Anderson a Bologna, Wisniewski a Udine), giocando senza sudditanza psicologica è riuscita a buttare fuori una corazzata dalla fase decisiva del torneo.
Non è che Armani o Toti abbiano investito nelle loro squadre meno soldi del Maccabi, semplicemente li hanno spesi male ed affidandosi alle persone sbagliate: come si vede in Italia e soprattutto in Europa (Milano mai da corsa, Roma suicidatasi). Poi da domenica saremo di nuovo ad entusiasmarci per i terzi quarti di Siena, quando la sua continuità difensiva stritola anche i più motivati, e a trovare giustificazioni (quelle più credibili sono le condizioni di Lavrinovic e il nervosismo di McIntyre), però la sensazione è che il treno europeo sia ormai passato. Con le eroiche Final Four 2003 (battuta dalla Benetton) e 2004 (battuta dalla Fortitudo al supplementare), raggiunte da un latro gruppo e da un latro staff tecnico (Pianigiani era all’epoca solo assistente). E con quella amarissima del 2008, quando in semifinale un’altra versione minore del Maccabi riuscì con un finale clamoroso a togliere a Pianigiani l’atto conclusivo contro il CSKA di Messina.
La forza ‘italiana’ di Siena negli ultimi quattro anni è dispesa, oltre che dal caso Cuccarolo che ammazzò la Benetton, dal fatto di essere fra quelle ricche l’unica società con una linea: intelligente nell’ingaggiare giocatori fuori dai radar delle grandi d’Europa e senza grilli NBA per la testa, intelligente nel toccare poco il gruppo nel tempo e nel credere in un progetto, seria nel pagamento degli stipendi (una rarità, anche in serie A) oltre che radicata culturalmente nella città. Bravi, bravissimi, ma la storia del basket italiano ha visto squadre più forti: non è un delitto dirlo, anche in mezzo ai complimenti. 

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