House of Cards seconda stagione, il tramonto di Obama

6 Novembre 2014 di Stefano Olivari

Il protagonista di House of Cards, la serie di cui da poco è finita la seconda stagione trasmessa in Italia da Sky Atlantic, è come tutti sanno Kevin Spacey-Frank Underwood, esponente del Partito Democratico che manipolando sottoposti e soprattutto più alti in grado (fino a quando non ne rimarrà nessuno) riesce a raggiungere la vetta della politica americana e mondiale. Senza elezioni e senza nemmeno una sua opinione forte, un po’ alla Renzi ma con molto meno seguito popolare del DC 2.0, pur essendo come deputato stato scelto dal popolo (da pronunciarsi come fa la Meloni) e non da sconosciuti ai gazebo con la certificazione di Cip e Ciop. Anche in questa stagione si rimane affascinati soprattutto dal rapporto fra Underwood e la moglie Claire, coppia davvero senza tabù di alcun tipo (lei, Robin Wright, sempre nella nostra Trinità milfistica insieme a Brooke Shields e Courteney Cox, con Demi Moore hors-categorie) e capace di strumentalizzare qualsiasi relazione chiamando però le cose con il loro nome.

Prendono quota diversi personaggi, dalla veterana di guerra Jackie Sharp al miliardario Raymond Tusk, ma oltre alla buona opinione che gli sceneggiatori hanno dei giornalisti (quasi tutti in missione e nemici del volemose bene) più di tutto colpisce il modo in cui viene descritto il presidente degli Stati Uniti in carica. Democratico ma bianco e a metà del primo mandato, tanto per non prendersi querele da Obama (fan della serie, su Twitter lui o il suo staff invitavano a non spoilerare). Però terribilmente simile ad uno dei più assurdi Nobel per la Pace della storia, ritratto in maniera crudele: indeciso su tutto e soprattutto in politica estera, schiavo dell’ultima impressione o dell’ultimo esperto ascoltato, poco limpido con i collaboratori, con un matrimonio in crisi e soprattutto desideroso di ‘uscire bene’ da qualsiasi situazione. Insomma, uno che invece di governare si comporta come se fosse sempre in campagna elettorale.

Poi l’Obama reale ha ancora un bonus con i media che contano (l’unico nero criticabile dell’emisfero boreale rimane Balotelli), ma i risultati delle recenti elezioni di mid-term parlano chiaro. Non che fossero inattesi, quasi ogni presidente a metà del secondo mandato è stato punito dagli elettori, ma di sicuro renderanno gli ultimi due anni di presidenza una specie di Vietnam. Difficile che riesca a imporre un’altra riforma importante come quella sanitaria, che pur con tutti i suoi difetti ha allargato di almeno 30 milioni il numero di americani coperti in caso di infortuni (esperienza personale, che spesso citiamo di fronte a vecchi italiani rompicazzo che si lamentano delle code dal medico di base e inneggiano al mercato: negli USA una visita medica generica d’urgenza, con prescrizione di farmaci, può costare sui 700 dollari), impossibile che lasci una traccia nella storia uno che giocava a golf subito dopo che l’Isis aveva decapitato un americano.

Garrett Walker è esattamente come lui: uno che si presenta bene, ma perde sia nel girone dei buoni che in quello dei cattivi. La terza stagione è già stata annunciata da Netflix e come le precedenti due starà moltissimo sull’attualità (la seconda finisce proprio nell’ottobre 2014). Essendo stata inventata ogni sorta di macchinazione sul suolo americano è probabile che abbia una parte ancora più importante la politica estera, dove la realpolitik di Underwood dovrebbe brillare: se finora si è parlato molto di Cina, è quasi certo (nel cast ci saranno anche le Pussy Riot…) che nel 2015 sarà il turno della Russia. Ma Putin questa volta non troverà il morbido Walker.

Share this article