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Football is coming home

Roberto Gotta 02/04/2021

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Nei giorni scorsi ha giocato la nazionale inglese, con tre vittorie su tre: contro San Marino in casa, Albania in trasferta, Polonia ancora in casa. Una discreta eco nei media, in gran parte eco d’ordinanza perché comunque gli spazi cartacei e web vanno riempiti e dev’essere mantenuto un tono patriottico minimo, un periodico camminare sulle uova tra realismo e utopia. Il primo è più saggio ma attira meno click e fa vendere (ancora) meno copie, la seconda aiuta a illudere, per l’ennesima volta dal 1966, che l’Inghilterra possa vincere un grande torneo internazionale.

Può sempre accadere, ovviamente, specialmente in competizioni con poche partite nelle quali è possibile infilare un filotto di prestazioni di alto livello, ma la fallita spedizione portoghese di Nations League dello scorso anno, con la semifinale persa da favoriti contro l’Olanda, ha riacceso i soliti dubbi. E in fondo nemmeno il buon Mondiale 2018, in concreto, aveva convinto al cento per cento: è vero che in queste manifestazioni non conta giocare bene ma passare intanto la fase a gironi in qualsiasi maniera per poi riazzerare tutto, ma gli inglesi avevano battuto la Tunisia all’ultimo minuto, superato facilmente Panama poi perso al primo ostacolo vero, il Belgio. Negli ottavi Colombia battuta solo ai rigori, nei quarti un bel 2-0 sulla Svezia, poi la sconfitta ai supplementari contro la Croazia in semifinale e ancora contro il Belgio nella finalina.

A conti fatti, una sola vittoria pulita nei momenti che contavano davvero, quella sulla Svezia: anche se il modo di giocare, la verve e la facilità di tocco di alcuni giocatori viste in quelle circostanze erano state molto incoraggianti. E apprezzate dai tifosi, che dopo la sconfitta in semifinale avevano cavallerescamente salutato i giocatori con un’ovazione in piedi e il canto, dal titolo appropriato, di Don’t look back in anger, il celebre successo degli Oasis. Quell’Inghilterra aveva scelto la difesa a 3, con Maguire, Stones e Walker, quest’ultimo reo confesso di non sentirsi molto a suo agio nel ruolo, Trippier a destra e Ashley Young a sinistra, Delph, Dier, Henderson e Alli ad alternarsi in mezzo e Lingard spesso a sostenere Kane e Sterling in avanti.

Passati i Mondiali, il Ct Gareth Southgate aveva proseguito con il 3-5-2/3-4-1-2 per un paio di partite del girone dell’irrinunciabile Nations League, per poi passare al 4-3-3 contro la Croazia e nella grande vittoria esterna sulla Spagna, forse la miglior partita degli ultimi anni, e oltretutto con l’età media dei titolari più bassa dal 1959. Lì Dier era il centrocampista davanti alla difesa, ruolo poi interpretato da Delph, mentre nelle ultime gare, le tre di marzo insomma, gli unici sempre presenti sono stati Kalvin Phillips del Leeds United e Mason Mount del Chelsea, con James Ward-Prowse del Southampton nella prima e Declan Rice del West Ham United nella seconda e terza. Rice più centrale in quello che è parso prevalentemente un 4-3-3 contro la Polonia, più affiancato a Phillips nell’apparente 4-2-3-1 contro gli albanesi. Nessuno dei due è un creatore di gioco: nel Leeds, Phillips è il cardine del 4-3-3/4-1-4-1, con una capacità di corsa e copertura del campo eccezionali in una squadra che peraltro ha doti atletiche terrificanti, mentre Rice è la protezione che permette a Tomas Soucek, nel 4-2-3-1 degli Irons, di avanzare. Ecco allora che viene fuori un altro potenziale dilemma, quello della creatività.

In Russia, nonostante l’arrivo alle semifinali, era mancata proprio quella, era mancato il cambio di passo a centrocampo: nella semifinale era apparso evidente che un Modric ce l’avevano i croati e non gli inglesi, e quello del giocatore che in mezzo al campo prende palla senza paura e la gestisce in maniera aggressiva e innovativa, come un tempo aveva fatto Paul Gascoigne, è spesso stato un tasto doloroso per gli inglesi.

Già nel 2011 Trevor Brooking, grande protagonista in passato con West Ham e nazionale, aveva del resto sottolineato come problema principale la mancanza di creatività e raffinatezza calcistica in mezzo al campo, difetto strutturale che non era stato corretto nemmeno dagli esponenti della seconda ondata della cosiddetta Golden Generation, termine in realtà coniato per i Rio Ferdinand, i Gary Neville, i David Beckham, i Michael Owen, ‘nati’ nel clamoroso 5-1 inflitto alla Germania nelle qualificazioni mondiali dell’1 settembre del 2001.

In panchina, quella sera all’Olympiastadion di Monaco, c’era Sven-Goran Eriksson, che aveva sostituito Kevin Keegan, dimessosi dopo lo 0-1 in casa contro gli stessi avversari, un anno prima. E se è vero che basta leggere la sua autobiografia, ’My Life in football’, per capire come mai Keegan debba essere in eterno un idolo di chiunque ami un certo tipo di calcio inglese ora purtroppo inghiottito dalla globalizzazione calcistica e dal conformismo petaloso (che lezione di fierezza e dignità, i polacchi in piedi a Wembley a indicare ‘Respect’ – parola che dice più di tanti slogan – accanto agli inglesi inginocchiati ed eterodiretti, prima del fischio d’inizio), è vero che il cambio di prospettiva con Eriksson era stato notevole: Keegan, un giorno, si era addirittura… addormentato durante una riunione tattica, aspetto per il quale non aveva un grande interesse.

Senza Steven Gerrard e Neville, infortunati, la nazionale aveva ottenuto meno del previsto al Mondiale 2002, perdendo contro il Brasile ai quarti di finale, così come contro il Portogallo negli ottavi del 2006: il ‘previsto’ si basava sia sulle prestazioni dei vari giocatori con i club sia sulla loro reputazione, ma non fu la prima volta che si commise un errore di valutazione sui talenti inglesi, sopravvalutandoli nel confronto con i loro avversari. È accaduto, ad esempio, anche con la coppia di centrocampisti più amata dagli hipster, Frank Lampard e lo stesso Gerrard, eccelsi entrambi singolarmente ma di rado assieme, senza però che il tentativo di sceglierne uno solo, affiancandolo a un giocatore meno propositivo ma più difensivo, sia mai realmente stato portato fino in fondo dai Ct, troppo timorosi di critiche a posteriori.

L’unico che ci provò in occasioni importanti fu Fabio Capello al Mondiale 2010: prima partita, 1-1 contro gli USA, con i due in coppia in mezzo al campo, e Gerrard pure in gol dopo 4’, dalla gara successiva – 0-0 triste contro l’Algeria – Gerrard aveva giocato nominalmente sulla fascia sinistra, con Gareth Barry accanto a Lampard. Nel 2014, girone con l’Italia, Gerrard e Henderson in coppia nel 4-2-3-1, Dopo, è andata ancora peggio: l’Inghilterra del punto più basso della sua storia recente, l’eliminazione agli Europei 2016 contro l’Islanda, a centrocampo aveva Dele Alli, Eric Dier e… Wayne Rooney in una delle sue ultime incarnazioni credibili. Insomma, senza arrivare agli eccessi di Sam Allardyce, che nel breve periodo in carica aveva pensato di nazionalizzare… Steven Nzonzi (ecco, per aver anche solo pensato QUESTO andava esonerato, non per altro) così da avere un giocatore un po’ diverso in mezzo al campo, la funzione cruciale di raccordo tra difesa e attacco è spesso stata interpretata in maniera non consona al livello delle competizioni internazionali.

Tornando allora al presente, il ritorno alla salute di Jordan Henderson farebbe di lui il titolare nella fase finale degli Europei, con Mount probabile presente per la qualità del gioco con e senza palla. Mount che – bisogna ricordarlo a titolo di cronaca, anche se certe scemenze nemmeno andrebbero menzionate – è stato accusato da molti tifosi di essere il classico… cocchino dell’allenatore, Lampard o Tuchel o Southgate che sia: se essere cocchino vuol dire eseguire alla perfezione i compiti, sacrificarsi, correre, essere altruisti senza attirare su di sé l’attenzione, chiaramente vita lunga ai cocchini e censura ai tifosi, che del resto quasi mai ne azzeccano una.

E gli altri reparti? Be’, c’è tempo: tra un mese e mezzo svaniranno le partite di club, cioé le più appassionanti – parere personale, ovviamente – e di nazionali toccherà parlare per forza. E lì torneremo nel dettaglio, parecchio dettaglio. Perché ‘sta cosa del Football is Coming Home è retorica e lisa, ma un Europeo con finale a Wembley fa un certo effetto, specialmente se preceduto da Inghilterra-Scozia.

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