C’era una volta il tennis

17 Aprile 2007 di Stefano Olivari

RESURREZIONE – Dal disastro annunciato di Tel Aviv alla resurrezione. E il bello è che è passata neanche una settimana: insomma, Volandri (quello che aveva male alla spalla) ai quarti e Starace in finale del torneo di Valencia sono la prova provata della differenza che c’è nella testa dei nostri giocatori tra circuito e coppa Davis. Nel primo caso ci si guadagna e anche bene, nel secondo non ci si guadagna abbastanza. Anzi, spesso ci si ha solo da perdere. Inutile ripetere il discorso sul ct, meglio concentarsi suo nostri eroi (?) che all’inizio della stagione in terra battuta diventano subito fenomeni. Per carità, meglio così, meglio per il nostro tennis. Qualcuno però dovrebbe spiegarci perché – ad esempio – Volandri fin qui aveva passato il turno una sola volta e quella volta per ritiro dell’avversario. Certo, non era la terra battuta, ma questo indica che il miglior giocatore italiano sa giocare ad alto livello almeno solo mesi l’anno. Insomma, come un calciatore che sa giocare con un piede solo. E di Maradona ce n’è stato solo uno… DESAPARECIDO – Caso a parte è Andreas Seppi. Il quale, dal match di Torre Annunziata contro la Spagna nel settembre 2005, invece di esplodere è imploso clamorosamente fallendo così il definitivo salto di qualità. La prova – oltre alla terribile partita in Israele – è anche il match di ieri a Montecarlo, vinto sì in due set contro il russo Gabashvili, ma di una pochezza tecnica disarmante. Andreas, che ha buoni colpi e una testa da giocatore vero, spesso si arena a fondo campo senza prendere l’iniziativa, aspettando insomma l’errore dell’altro. A 23 anni, se si vuole salire ancora, la tattica non può funzionare. E il match di secondo turno contro Federer potrebbe davvero far male, a meno che Seppi non ricordi il giocatore che stava diventando. COSI’ POCO BRITISH – Tra quelli che lasciano c’è anche Greg Rusedski che a 33 anni ha detto basta: “Ho ottenuto quello che potevo”. Rudeski cioè è arrivato una volta in finale agli UsOpen nel 1997 perdendo in quattro set da Rafter, ha vinto una Grand Slam Cup, ha battuto Sampras in una finale del Paris Masters ed è arrivato ai quarti a Wimbledon. Ma soprattutto Greg verrà ricordato per essere stato oggetto del tentativo dei britannici di costruirsi un giocatore a tavolino prima dell’avvento di Henman. Rusedki infatti – madre britannica ma nato a Montreal e cittadino canadese – ottenne la cittadinanza inglese dopo aver vissuto nel Surrey per tre anni con la sua fidanzata Lucy. Questo diede occasione ai tifosi di Sua Maestà per cominciare l’era dell’isteria durante il torneo londinese, pratica che poi con Henman sarebbe diventata consolidata tradizione. E Greg, fiutata l’occasione, non si fece pregare: nel 1995 arrivò negli ottavi sull’erba e scese in campo indossando l’Union Jack come bandana. Si sfiorò l’incidente diplomatico: l’1 luglio, infatti, proprio quel giorno di quella partita, è il Canada Day e al di là dell’oceano non la presero benissimo. Tifo a parte, comunque, Rusedki in campo è stato sempre poco british, difficile da affrontare, mancino tignoso e spesso scorbutico anche se comunque divertente. Ora agli inglesi, con Henman sul viale del tramonto, non resta che Murray. Che però, per sfortuna loro, è scozzese… TIRO MANCINO – A proposito di mancini: ci ha provato anche Agassi in un match benefico a Houston in cui è sceso in campo con la moglie, al secolo Staffi Graf. Siccome dall’altra parte c’era un paio di giovani di belle speranze, il prode Andre ha deciso di giocare con la sinistra, tanto per non far loro troppo male. Risultato: colpo di racchetta in testa a Steffi, tre punti di sutura. Sulla serata conseguente non si hanno notizie… LEGGETELO – Esce domani in libreria “C’era una volta il tennis”, scritto da Lea Pericoli e “interpretato” da Nicola Pietrangeli, la cui vita viene raccontata in una chiacchierata lunga 235 pagine. Il libro, letto in anteprima, è leggero, divertente e pieno di aneddoti. E, soprattutto, racconta della Dolce Vita del tennis, di uno sport che così non c’è più, di un’era che non era per forza migliore ma che qualcuno avrebbe voluto vivere. E’, in pratica, un tuffo nei ricordi di una generazione senza megapremi, ranking e racchette al carbonio, e dunque – consiglio personale – da vivere almeno tra le pagine di un libro. Vi divertirete e probabilmente proverete un po’ di nostalgia. Segno, almeno per noi, che gli anni cominciano a passare.

marcopietro.lombardo@ilgiornale.it

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