Basket nero e culi bianchi

4 Novembre 2005 di Daniele Vecchi

NEW YORK – Sudaticcio ma infreddolito (d’ altronde, siamo a novembre, e a New York fa un freddo cane) dopo una partitella di basket al playground sulla Columbus Avenue, ritorno a “casa”, ovvero uno stanzone occupato da dieci persone a me sconosciute ad Harlem, più precisamente sulla 114th Street. Sotto casa, come di consueto, stazionano gli homiez del quartiere, ragazzi afro-americani che a vederli fanno una gran paura, bardati di Nba fino al midollo e con la attitudine classica dei dominatori e padroni incontrastati della zona, ma che a conoscerli in realtà sono una massa di pecoroni teneroni. Come al solito, se ci sono alcuni di quelli che conosco, mi fermo a fare due chiacchere informali, non prima chiaramente di avere svolto il rituale dei complicati saluti, nocca contro nocca nei quattro punti cardinali all’ arrivo, e stretta di mano con avvicinamento della spalla a mò di braccio di ferro al congedo. Nel mentre, siccome è venerdì sera, domando: “tonight?”. Il più simpaticone, Ship, o Shit, non riesco mai a capirlo (lo chiamo sempre “buddie”, amico, per non incorrere in lesa maestà chiamandolo Shit, merda), mi risponde ridendo: “kick some white ass, man!!”, prendere a calci dei culi bianchi, con scherzoso ma chiaro riferimento al fatto che io sono bianco, che sono in realtà loro amico ma che forse un giorno potrebbero cambiare idea e iniziare la rivolta contro i bianchi proprio da me. Tutti ridono, l’ atmosfera è rilassata, e io rispondo, sempre ridendo, simpaticamente, ma in fondo in fondo narrando tra le righe qualcosa di severo: “ah ah ah! you can start it now, man!! D’ya see?!? I’ m white!!”. Potete cominciare adesso, non vedete? Sono bianco!! E rido fortissimo, e loro ridono fortissimo, ci si piscia addosso dalle risate ci si dà dei cinque con lo schiocco, come detto l’ atmosfera è iper-rilassata, ma io rimango sempre sul chi va là, non si sa mai.
Saluto gli homiez, entro in stanza, controllo che l’ armadietto chiuso a chiave contenga sempre il mio laptop, rapida doccia, vestito alla moda newyorkese, ovvero larghissimi pantaloni neri presi a 5 euro al mercato di Bologna, bandana rossa da 99 cent in testa, scarpette sportive prese a 10 dollari da Conway, e gigantesca e logora maglia a larghe strisce orizzontali rosse e nere del Milano Mediolanum Rugby numero 22, il gigante degli anni novanta Berni, il tutto sotto un giaccone nero, anche quello proveniente da una baracchina di vestiti usati in Montagnola a Bologna. Sul Fredrick Douglass Boulevard prendo l’ autobus, classico il numero 10, direzione downtown Manhattan. Si costeggia Central Park sulla 8th Avenue per una cinquantina di minuti (poco traffico!), si va giù fino a Port Authority sulla 42nd Street, dove scendo, cammino per un isolato fino alla 7th Avenue e prendo l’ autobus numero 20, che attraverso il Garden e Chelsea mi porta fino nel cuore del Village, mia meta notturna. Sono circa le 11, su Bleeker Street c’ è un mega-movimento. Saluto i ragazzi del 1849 (all’ incrocio con MacDougal) e del Village Lantern (all’ incrocio con Thompson), due locali dove ho suonato alcune volte e dove mi hanno sempre trattato bene, anche per il fatto che il booking manager del 1849 è di origini italiane, e che il Village Lantern fa anche cucina italiana. Siccome però la mia vera casa è l’ East Village, perchè considero il Village “tradizionale” troppo turistico e pecoronistico, continuo la mia passeggiata verso est, oltrepasso la Broadway, scendo di un isolato e sono su East Houston Street, il confine tra l’ East Village a nord e la Lower East Side a sud. Lo stomaco langue, e il take-away turco aperto 24 su 24 su Houston Street, Bereket, casca a pisello, come disse un noto attore cinematografico negli anni Ottanta. Non propriamente pulitissimo, Bereket è secondo me il miglior falafel di New York, sia a sandwich sia al piatto.
Non ho in programma nessuna serata galante, quindi la mia alitosi da falafel non mi disturba più di tanto, mentre mi incammino su Avenue A, perpendicolare a Houston Street. Ho un mezzo appuntamento con alcuni amici italiani in giro turistico (hotel a midtown, visita all’ Empire State Building, crociera intorno a Manhattan e altre cagate simili, per questo gli ho dato appuntamento all’ East Village, il luogo più “truly newyorker” di Manhattan), in realtà li dovrei beccare alle 11.30 al Sidewalk Cafè, su Avenue A at 6th Street, ma a mezzanotte inoltrata sono ancora in raccoglimento a Tompkins Square Park, qualche isolato più a nord, dove ogni giorno rendo omaggio al murale che raffigura Joe Strummer, cantante dei Clash scomparso nel 2002. Arrivo al Sidewalk Cafè (anche questo è un locale che ha visto le mie performances chitarristico-canore) intorno a mezzanotte e venti, e gli amici, visibilmente alticci, mi abbracciano e mi baciano, non li vedo da un pò (loro sono di Milano e non ho spesso occasione di beccarli) e sono felice di vederli. Ce ne andiamo dopo una mezz’ oretta di chiacchere intense, e ci dirigiamo verso il Mercury Lounge, che si trova proprio su Houston Street. Ci sono milioni di persone in giro per Avenue A, il tasso alcolico e drogatico appare molto alto, all’ altezza di 3rd Street assistiamo agli strascichi di una rissa appena sedata da una macchina degli sbirri, che hanno appena ammanettato uno sbattendogli la faccia sul cofano, mentre gli altri amici o nemici coinvolti nelle mazzate appena terminate questionano vigorosamente con i “pigs” (così sono universalmente conosciuti gli sbirri a New York). Al Mercury Lounge non ci arriveremo mai, perchè proprio nei pressi di 3rd Street c’ è una piccola kebaberia, che risveglia la fame chimica dei miei amici e che diventa il luogo terminale della serata, finita a parlare dell’ Italia con i cuochi arabi, uno dei quali, siriano, conosceva l’ italiano per essere stato un anno in Italia. Il numero 20 mi riporta a Port Authority, e dopo mezz’ ora di attesa sulla 8th Avenue, il numero 10 mi riporta ad Harlem. Sono quasi le tre, e degli homiez sotto casa nessuna traccia, chissà se hanno trovato dei bianchi da prendere a calci…

Daniele Vecchi

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