Di chi è l’oro della Banca d’Italia?

13 Febbraio 2019 di Indiscreto

Le recente proposta di legge per chiarire la proprietà dell’oro gestito dalla Banca d’Italia, presentata dal leghista Claudio Borghi, ha almeno un merito: stabilire che cosa rappresenti quell’oro, che in totale ammonta a circa 92 miliardi di euro. Poco in rapporto al debito pubblico italiano (2.435 miliardi, aggiornamento di gennaio), molto rispetto alle necessità finanziarie di breve periodo, se si pensa che per l’anno in corso l’aumento dell’IVA è stato per così dire sterilizzato con 15 miliardi… Per il 2020 tutto è aperto, ma al momento l’IVA al 25% (con tanti saluti alla ripresa dei consumi) sembra lo scenario più probabile e la tentazione di trovare soldi facili, vendendo i beni di famiglia, è fortissima in entrambi i partiti di governo. A noi del bar pare in ogni caso incredibile che l’argomento sia sempre stato un tabù, politico e giornalistico. Ma alla fine di chi è l’oro italiano, dello Stato o della Banca d’Italia?

I lingotti gestiti dalla Banca d’Italia sono da essa ritenuti di proprietà, anche se nelle valutazioni che si fanno dell’istituto spesso queste riserve non rientrano, come se avessero una natura giuridica ibrida (il punto è proprio questo). Di sicuro fin dalla sua fondazione la Banca d’Italia ha avuto riserve auree di proprietà, la differenza è stata il rapporto con i governi del momento e il modo in cui queste riserve sono state alimentate. Lingotti gestiti ma non tutti in deposito, visto che in concreto l’oro degli italiani si trova per la maggior parte (56%) all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Una permanenza all’estero che ha fatto nascere più di una teoria complottistica, dal pegno (peraltro nel 1976 accadde esattamente questo, con la Germania Ovest a tenerci in vita) a tante altre, che ha una giustificazione tecnica (vicinanza fisica alle principali piazze di trading dell’oro) ma che politicamente è priva di senso: se le riserve auree, persa dalla fine di Bretton Woods (1971: in sostanza stop alla convertibilità del dollaro in oro) la loro funzione sulle valute, al di là della loro amministrazione ordinaria sono soltanto riserve di ultima istanza, da usare proprio quando la Patria è in pericolo, per le loro caratteristiche di trasportabilità, scarsità e solvibilità, non si capisce come mai il nostro oro debba stare in gran parte presso altri. Scoppia la Terza Guerra Mondiale e dobbiamo pregare gli ammeregani di mandarci una nave carica dei nostri lingotti?

La domanda di Borghi ha quindi già una risposta da parte della Banca d’Italia, anche se non è quella auspicata e forse nemmeno quella giusta (in ogni caso deciderà il voto popolare del nostro ‘Di qua o di là’, inutile ma almeno senza pagare 0,51 euro a voto), rimane il fatto che con qualsiasi assetto giuridico quell’oro debba tornare a casa. Se nel mondo di oggi i lingotti sono equiparabili a titoli al portatore, è assurdo che stiano negli Stati Uniti, in Svizzera e nel Regno Unito. Questo non significa venderli per scopi monetari (cosa fra l’altro proibita dai vari trattati europei), ma solo averli sotto controllo. Il supergiovane che è in tutti noi forse pensa che questi dell’oro siano discorsi anacronistici, da disperati che vanno al Compro Oro per pagarsi l’abbonamento a Sky, ma poi non sa spiegare come mai moltissime banche centrali stiano in questa fase storica rinforzando le proprie riserve auree fisiche. In periodo di turbolenza ragionano come nostra nonna, che mai avrebbe lasciato il suo lingottino a casa di una sua vecchia amica di New York.

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