Prima degli inglesi

14 Dicembre 2008 di Stefano Olivari

Nessuno può dire con certezza chi abbia inventato il calcio, ma sono davvero pochi i popoli che non abbiano trovato un gioco suo antenato da gettare in pasto ai propri orgoglio ed ignoranza. In questo senso le ricostruzioni nazionalistiche sono impossibili da contare, visto che spesso vengono confrontati giochi che in comune hanno solo l’uso della palla. Duemila anni fa non c’eravamo, così come tutti gli storici che si prendono sul serio e poi copiano da cortigiani dell’epoca trattata: tutto quello che sappiamo l’abbiamo quindi letto da varie fonti. Quindi le idee sono chiarissime, essendo di seconda mano: se facciamo risalire la nascita del calcio moderno alla codifica di alcune regole base si può affermare senza dubbio che questo sport sia nato ufficialmente nel 1863 in Inghilterra. Insomma, la storiella che conoscono anche nei bar. Nel 1863 non con la fondazione della Football Association, ma con la divisione dai cultori del rugby avvenuta proprio alla fine di quell’anno. E’ il calcio nella sua versione inglese lo sport che ha conquistato il mondo: altre scuole lo hanno cambiato e migliorato, ma non si può violentare la realtà solo in nome di un amor patrio da treno.
L’istinto di giocare con un oggetto più o meno sferico non è mai stato un’esclusiva britannica. Già nel terzo secolo avanti Cristo, sotto la dinastia Han, in Cina avevano un grandissimo successo giochi a squadre conosciuti come tsu-chu, con tsu che sta per piede e chu per palla. Football, in altre parole. Giochi praticati più per migliorare la forma fisica dei militari che per il divertimento di un pubblico che del resto non c’era, fatta eccezione per i commilitoni e qualche funzionario statale annoiato. Una piccola sfera di cuoio riempita di piume e capelli, del diametro di circa trenta centimetri, da prendere a calci e da buttare in una piccola rete separata da due canne di bambù: questo in sostanza era lo tsu-chu. A differenza di molte sue varianti dello stesso periodo l’uso delle mani non era consentito: il numero dei giocatori era variabile ed il portiere non era previsto, ma uno o più uomini, in genere i più alti e robusti, stazionavano in maniera quasi fissa davanti alla porta. Insomma, un quasi-calcio con un grave limite, quello di essere confinato nelle caserme e nei campi di addestramento militari. Quindi con pochissima, per non dire nessuna, presa popolare.
Capita spesso che lo tsu-chu venga associato al giapponese kemari, gioco dalla data di nascita collocabile intorno al 600 dopo Cristo, che raggiunse l’apice della popolarità qualche secolo più tardi durante il cosiddetto periodo Heian (che trae il nome dalla capitale dell’epoca, l’odierna Kyoto). Non mancano ipotesi affascinanti, tipo quella di un kemari ancora più antico, e molto simile allo tsu-chu, tanto che (siamo nella purissima fantastoria) in diversi racconti popolari cinesi si narra di incontri-scontri fra rappresentative militari cinesi e giapponesi. Una certezza è però che questo gioco fosse comunque di importazione, non a caso incominciò ad avere successo nel momento di massima influenza cinese sulla cultura giapponese. Numerose sono comunque le testimonianze riguardanti il kemari nella sua versione ufficiale, sport che in Giappone è arrivato fino a oggi (addirittura il quasi ex presidente americano americano George W. Bush, in visita a Tokio, è stato sottoposto al supplizio di una finta partita), sia pure solo per rispetto della tradizione e non certo perché ha conquistato le masse. Il punteggio finale non era l’unico criterio per stabilire chi avesse vinto, essendo poi sottoposte a giudizio l’abilità e l’armonia del gesto tecnico. Secondo le regole originarie i giocatori, otto per squadra, si dovevano mettere in cerchio con l’obbiettivo immediato di passarsi la palla con i piedi senza mai farla cadere per terra, e quello finale di tirare questa palla dentro uno spazio delimitato da due alberi. Il tutto senza mai farla cadere per terra: una specie di esercizio per migliorare la tecnica individuale, con gli occhi di oggi. Non c’erano lotta e contatto fisico, che invece erano presenti nel suo antenato tsu-chu.
In Europa non si dormiva, anzi. Il greco episkyros era certo molto più vivace del kemari, così come il romano harpastum, che era giocato con una piccola sfera, fra due squadre, in un campo rettangolare delimitato da strisce, con una linea di metà campo. L’obiettivo dell’harpastum era portare la palla oltre i confini degli avversari. Nonostante la violenza il gioco non era però lasciato solo all’istinto animale: ognuno aveva una sua collocazione tattica e il pallone veniva passato con frequenza. In fondo il ruolo dei piedi non era decisivo, parlando di abilità, perché più o meno nell’harpastum valeva tutto. I romani lo fecero conoscere in Britannia dopo il loro secondo sbarco, nel 54 avanti Cristo, sotto la guida di un Giulio Cesare al quale le mille battaglie in Gallia non erano state sufficienti. Non è comunque giusto dire che l’harpastum abbia dato origine a tutti i giochi con la palla dei locali: sono infatti numerosi gli scritti su partite fra legionari romani e colonizzati britannici, che già da secoli praticavano sport simili. Quello che si può dire con certezza è che i britannici furono conquistati dal sistema di regole dell’harpastum. Una leggendaria partita, nel 276 dopo Cristo, fu giocata secondo le regole latine e vinta dai britannici contro le truppe romane, fra il tripudio di una folla che è il primo pubblico calcistico ricordato dalla storia. Per chi vuole vedere a tutti costi nel calcio una metafora della vita e dei rapporti di potere, un segnale in più di declino dell’Impero, che comunque, nella sua versione occidentale, sarebbe ufficialmente crollato due secoli più tardi. Tanto per non fare i soliti italiani che dicono di avere inventato tutto, con gli anglosassoni che poi però sono più veloci nel registrare il brevetto, bisogna ribadire che l’harpastum si era inserito in un contesto sportivo dove i giochi con la palla la facevano già da padroni. E proprio da questo contesto ripartiremo con la nostra storia.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it
(la rubrica dà appuntamento a domenica prossima)

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