La pedina mancante

3 Febbraio 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
St Moritz, 1974, campionati del mondo di sci alpino. Per le elvetiche, le padrone di casa, lo slalom speciale fu una specie di Waterloo. Fino alla materializzazione al cancelletto, con il pettorale trentanove, di uno scricciolo diciassettenne che scese con l’incoscienza di una bambina e il talento cristallino di una predestinata. Lise-Marie Morerod, terza alla fine della seconda manche, si presentò così al grande pubblico.
Durante le competizioni per Boubou, nomignolo cartoon affibbiato dai quattro fratelli, la normalità era impossibile: sulle piste incarnava l’esatto contrario di ciò che era nella vita di tutti i giorni. Una persona schiva, tranquilla, solare, figlia di contadini, cresciuta nel vodese a Ormont-Dessus: il comune che si specchia nel massiccio e nella stazione sciistica di Les Diablerets. Ad appena cinque anni il primo paio di sci: quasi scontato per lei un approccio autoctono alla specialità, che trasformò in un linguaggio tutto suo. All’età di dodici cominciò, da autentico portento, l’agonismo; tre stagioni dopo (ancora quindicenne!) infilzò agli assoluti svizzeri di gigante la grande Nadig, due volte oro olimpico a Sapporo in quel 1972. Per la concorrenza, nel settore tecnico, comparve la rivoluzione. Un’indipendenza di gambe, una centralità, felina, con quel fisico minuto (uno e sessantadue per cinquantacinque chili) uno scherzo della natura.
In Coppa del Mondo la vernice sul gradino più alto del podio fu a Garmisch-Partenkirchen, in uno speciale, il 4 Gennaio 1975. Poi divenne una valanga. Altre tre affermazioni in quei mesi, sette nel 1975-76 (compreso il trionfo più bello, sul percorso di casa, in slalom), otto nel magico 1976-77, cinque nell’annata successiva. Eppure, malgrado le tante vittorie, Lise-Marie continuò ad avere uno stile originalissimo: perse molte gare con vantaggi consistenti dopo la prima prova perchè (quasi) indifferente di fronte alle sfide delle rivali. La Morerod fece corsa contro se stessa, spingendo sempre più in là i propri limiti. Incurante dei calcoli di classifica, alla ricerca della performance perfetta. Buttò alle ortiche alcune manifestazioni importanti, come se il rischio (l’osare l’impensabile) fosse il suo unico interesse. Lo dimostrò anche con i distacchi record inflitti: nove volte diede più di un secondo all’atleta che occupò la piazza d’onore, tre volte sorpassò i due secondi di differenza. La vittima preferita fu la più forte di tutte, la leggendaria Annemarie Moser Proell: dopo un’imbattibilità di un lustro nella Coppa generale, l’austriaca (al rientro post maternità) fu surclassata dalla strepitosa Boubou nell’anno di grazia 1977. Prima rossocrociata di sempre ad alzare il trofeo di cristallo e con un punteggio finale da primato. Il corrispettivo femminile di Ingemar Stenmark, ovvero l’eleganza e la classe al potere. Poi il 22 Luglio 1978, vicino Vernayz, accadde l’imponderabile.
Uno schianto, in macchina con il fidanzato Pierre Alain Brucker, e la tragedia.
Fu estratta dall’automobile in condizioni disperate, con il corpo a pezzi, ad un passo dalla morte. La partita a scacchi, ancora più crudele dell’immaginario bergmaniano, la vinse ma uscì dal coma (dopo tre settimane) senza più speranze per la carriera sportiva. La campionessa non c’era più: commozione cerebrale, trauma cranico, le fratture del bacino, della seconda vertebra cervicale, e la spalla destra distrutta. A ventidue anni. In una stanza di ospedale, immobilizzata, per cancellare il dolore e il destino capì che avrebbe dovuto riprovarci comunque. Sei mesi di rieducazione per camminare. Tornò ai paletti: era il fantasma della fuoriclasse che aveva dominato il circuito, la cometa rossa dei pendii di mezzo mondo. “Mi sentivo un vegetale. Ero già stanca dopo la terza porta, ma il peggio furono i disturbi della memoria e i problemi psicologici.” A Megeve, a un anno e mezzo dall’incidente, centrò un sorprendente undicesimo posto; le più contente di quella (parziale) resurrezione furono proprio le colleghe. Perrine Pelen, una delle nemiche amatissime, la abbracciò piangendo; Erika Hess, la sua preferita, festeggiò come fosse stata una sua vittoria. Decise di finirla con il numero di gara, il tic tac del cronometro, l’adrenalina della competizione. Provò a lasciarsi alle spalle l’incubo di quel giorno d’estate e si sposò. Molti ricordi della sua esistenza erano spariti, dovette ricostruirli con il tempo e la pazienza.
Lise-Marie Morerod è la pedina mancante del grande puzzle dello sci alpino.
In poco più di tre anni accumulò un palmares mostruoso: ventiquattro vittorie, quarantuno podi complessivi, cinque coppette di specialità. Pensiamo che avrebbe potuto sfondare il centinaio di affermazioni o almeno insidiare le cifre dell’impareggiabile Ingo (86 scalpi…). E’ stata l’unica vera risposta alla grandeur della regina Proell: quanta gloria le tolse quella disgrazia? Le conseguenze dello scontro non abbandonarono mai la Morerod, costretta ancora oggi ad annotarsi tutto, compresi gli appuntamenti più banali; impaurita dall’eventualità di un attacco di panico. La depressione strisciante si materializzò anche nel demone del gioco: dieci anni fa, rovinata da un “amico” lestofante, perse tanto (troppo) denaro.
Confessò il fatto, vergognandosi, alla stampa: il suo matrimonio non sopravvisse, gli amici invece la aiutarono concretamente.
“Ogni giorno per me è un dono.”
Oggi Boubou ha al suo fianco il figlio, Steve, che fa l’architetto e il designer. E’ una donna felice, sorridente, anche quando lavora con gli anziani di un ospizio. Abita a Leysin e continua ad insegnare la sua arte ai bambini, la maggior parte dei quali molto probabilmente ignora la storia di quella maestra bravissima. Non sanno che starle accanto è un privilegio: è un po’ come imparare a pedalare da Jacques Anquetil o a volleare da Martina Navratilova. Li porta a sciare sulla Berneuse, dove lo sguardo può arrivare fino al panorama maestoso dell’Eiger. Lise-Marie, la campionissima sfortunata, ha sempre bisogno del canto della neve silenziosa.

“… e alla fine non ci furono più piedi che lasciassero impronte nè corpo nè occhi che brillassero ma soltanto luce e suono e gioia pura e eterna. Niente passato, niente futuro, niente, neppure un presente, unicamente la nuova gioia che non conteneva ricordi di angustie e lotte e sofferenza…” 
(Hubert Selby Jr.)


Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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