In senso spregiativo

21 Dicembre 2008 di Stefano Olivari

Con il nostro Bignami nella scorsa puntata siamo finalmente approdati in quella che per comodità chiameremo con il nome attuale di Gran Bretagna. Fino al diciannovesimo secolo lì si giocò un football privo di regole che valessero oltre i confini del paesello, con un numero di giocatori indefinito ed una violenza incredibile. Le forme più simili al calcio attuale presero piede in Inghilterra e in Scozia, mentre fuori dalla Gran Bretagna, in Irlanda, a dominare era l’hurling (una specie di hockey su prato, per spiegarlo a chi non ne ha mai sentito parlare e scusandoci con i suoi cultori), arrivato con qualche variante fino ai giorni nostri. Quelle partite di football medioevali venivano giocate nelle strade dei paesi senza limiti di spazio, senza arbitraggio e addirittura senza una palla che fosse uguale da una partita all’altra. Sorvoliamo anche sulle mille differenze dei vari football, sui localismi che le esaltavano e sulle tante leggende: la più famosa (che non significa più fondata) era che nello Shrovetide Football, pare nato dopo la famosa partita vinta con i Romani, una partita fra Kingston e Chester fosse stata giocata avendo come palla una testa umana.
Tutte cose che un malato di Wikipedia può ricostruire, magari con più precisione di noi. A livello filosofico ci sembra invece interessante notare che il football si portò dietro fin dagli albori una fama di violenza ed una certa facilità nel diventare capro espiatorio di ogni tipo di moralismo: una situazione che non è rimasta confinata nell’antichità, come tutti gli appassionati sanno anche al giorno d’oggi ogni pretesto è buono per l’esibizione mediatica di grigi professori inebriati dalla popolarità. Nel 1314 il football fu addirittura proibito a Londra, visti gli incidenti che provocava fra i giocatori e fra il pubblico: situazione da segnalare a chi sostiene che la violenza negli stadi è l’inevitabile sottoprodotto del declino della società postindustriale. Edoardo III lo fece addirittura abolire per legge, il football, e durante la guerra dei cent’anni fra Inghilterra e Francia (dal 1337 al 1453) quasi tutti i re inglesi osteggiarono questo sport, ritenendo che distogliesse i soldati dalla pratica delle discipline tradizionalmente militari, tipo il tiro con l’arco. Anche i re scozzesi, dal quindicesimo secolo, fra una guerra e l’altra, si misero in testa di abolirlo: il calcio non ha mai avuto una grande immagine e per il suo successo di pubblico si è sempre attirato le antipatie di chi pensava di non poterlo controllare, dai re agli intellettuali. Che ciclicamente gli si sono riavvicinati, quando il pendolo della politica e della convenienza ha imposto di ‘andare verso il popolo’. Non è un caso che Shakespeare o chi per lui abbia fatto usare in senso spregiativo l’espressione ‘giocatore di football’ da Re Lear, non esattamente l’ultimo dei suoi personaggi.
Osteggiato in Inghilterra, il nostro sport trovò nuova forza propulsiva in Italia, sotto l’influenza fiorentina e veneziana. Fra i tanti capolavori d’arte e l’enorme quantità di paccottiglia dei ragazzi di bottega, il Rinascimento ha quindi lasciato in eredità anche una rielaborazione decisiva del calcio. Che diventò più organizzato del cugino inglese, curando maggiormente l’aspetto spettacolare e formale. Il calcio fiorentino, paradossalmente più rispettato dagli studiosi britannici che da quelli italiani, si giocava fra due squadre di ventisette giocatori. Quindici innanzi (libera traduzione: attaccanti), cinque sconciatori (centrocampisti), quattro datori innanzi (difensori), e tre datori a dietro, contropiedisti ma più in generale velocisti liberi da schemi, pronti a far ripartire l’azione. Peccato che questo calcio ebbe un successo solo locale, senza mai infiammare l’Italia, che del resto era lontanissima dall’essere uno stato unitario. E così la palla, in tutti i sensi, tornò in Gran Bretagna.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it
(Mondiale dà appuntamento a domenica 28 dicembre 2008)
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