Hustle, la NBA degli scout

30 Giugno 2022 di Stefano Olivari

Il successo di Hustle, almeno su Netflix, sta cavalcando l’onda lunga di quello delle fiction sulla pallacanestro, mai così tante (presto la recensione di Winning Time) e piene di attori famosi come negli ultimi anni. Qui il protagonista è Adam Sandler, nei panni (immaginari) di Stanley Sugerman, scout  internazionale dei Philadelphia 76ers, sempre alla ricerca del colpo da fare al draft e quindi attento anche all’Europa minore. Che nel suo caso si materializza a Maiorca, dove in una partita di strada scopre tale Bo Cruz, interpretato da uno molto credibile visto che si tratta di Juancho Hernangomez.

Da lì parte la storia, che non spoileriamo perché per due ore ci ha tenuto inchiodati e che si nutre anche dell’immaginario di Rocky: dalle corse all’alba per Philadelphia, con annessa la solita retorica su questa città, al perdente con la grande occasione di riscattarsi. Intercettato il pubblico generalista, si punta anche a quello NBA vista la quantità di apparizioni, anche per pochi secondi: fra le tante ci sono piaciute quelle di un divertente Marjanovic, di Anthony Edwards come trashtalker, di Trae Young e ovviamente di Doctor J. Nella sezione monumenti, oltre ad Erving e a LeBron James che figura fra i produttori, Robert Duvall proprietario dei Sixers. Ah, c’è anche Sergio Scariolo... Le scene di gioco sono limitate a partitelle e provini ed è giusto così.

Il terzo pubblico intercettato è quello più politicamente corretto, che solo in parte coincide con quello di Netflix (come provano le classifiche, che spesso vedono in testa film in cui uomini e donne bianchi scopano fra di loro) ma che comunque è necessario per godere di buone critiche e di giocarsela per gli Oscar (proprio per questo Hustle è uscito anche nelle sale, almeno negli USA). Non è un caso che anche in Hustle manchino i cattivi, che del resto non sono identificabili nemmeno nel seguito di Top Gun: certo il figlio di Duvall è antipatico, ma non si può dire che faccia cose spregevoli. Poi la NBA è dura, il film suggerisce ‘dura ma giusta’. Uno spottone, insomma, però molto ben fatto e che fa scattare la nostra identificazione stalloniana con l’ultracinquantenne sconfitto dalla vita. Una boccata d’aria la linearità della trama: senza salti temporali, stronzate oniriche, citazioni per nerd o ex liceali.

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