Così è la vita: intervista a Mariella Nava

10 Aprile 2021 di Paolo Morati

In Italia si parla molto dei cantautori citando le varie scuole, i personaggi che hanno fatto la storia della nostra musica. Molto meno, invece, si approfondisce il contributo delle cantautrici, quelle vere, perché come per i colleghi maschi non basta imbracciare di tanto intanto una chitarra o sedersi al piano per definirsi tali. Mariella Nava è una di quelle artiste che scrivono ciò che cantano. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lei, partendo proprio da questo tema…

Il tuo primo album Per paura o per amore del 1987 vinse la Targa Tenco come migliore opera prima. Non male per una cantautrice.
All’epoca per una cantautrice essere premiata non era così frequente, per lo meno in Italia visto che all’estero da tempo c’erano grandi nomi come Carole King, Joni Mitchell e altre ancora, mentre da noi la cantante donna era quasi sempre identificata con l’interprete. Senza voler fare paragoni, una figura come la mia veniva vista in modo sospetto. Ricordo un episodio curioso di qualche anno dopo: nel 1992, partecipando in gara a Sanremo con Mendicante, mi presentai alle prove sedendomi al pianoforte. I tecnici mi chiesero chi fossi, stavano attendendo Mariella Nava. Quando dissi che ero io spostarono il pianoforte al centro. Non si aspettavano una cantante seduta, a suonarlo. In realtà, guardando alla poesia, se dobbiamo ripercorrere un po’ di storia possiamo tornare indietro fino a Saffo, e parliamo di 600 anni prima di Cristo. Oppure, più di recente, pensiamo a Maria Anna Mozart, alla quale nonostante il talento non furono però date le stesse possibilità del ben più noto e geniale fratello. La cosa curiosa è che a volte mi hanno anche detto che scrivo bene come un uomo e mi hanno definito un cantautore in gonnella… io che la gonna la indosso anche poco!

Tra l’altro sul palco non hai mai osato più di tanto nel vestiario…
Agli inizi è stata una scelta inconscia. Poi la mia idea è che nella musica non si debba guardare ma sentire. Una canzone ha una durata breve e se il pubblico si concentra sulla mia pettinatura ho già raccontato mezza canzone. È anche una questione di emozione che si deve trasmettere.

Facciamo qualche passo indietro. Ci racconti della Mariella Nava bambina, nata a Taranto, quella che ritroviamo in un brano come Bambolina?
Ero una bambina un po’ timida e riservata, attenta a quanto mi circondava. Venivo esortata a giocare con coetanei e coetanee, ma a me bastava osservare il mondo, le azioni che accadevano in tutto quanto era attorno a me. Non lo facevo per partecipare fisicamente ma con la mente, avendo uno spirito di osservazione intima delle cose. Poi arrivò quel momento magico. In casa mia entrò un pianoforte comprato per mia sorella di tre anni più grande, che iniziò a studiarlo. Lei frequentava la prima media e quella scelta fu suggerita dalla sua insegnante di educazione musicale.

Insomma il contatto avvenne in modo casuale…
Come tutte le cose importanti della vita. Io ero la terza, la minore dopo un fratello e una sorella, e la meno sospettabile. E mia mamma pensava che fossi troppo piccola per imparare a suonare. Ma un pianoforte in casa ingentilisce l’animo e il pensiero e chi voleva entrare in contatto con questa arte ero proprio io. Insomma, mentre mia sorella smetteva di studiarlo io ci sono cascata dentro e non l’ho mollato più. Di fatto ho capito subito che nella musica c’era qualcosa di importante perché sovrastava ogni altro mio interesse, i giochi quando ero piccola e anche lo studio via via che crescevo. La musica veniva prima e il resto dopo, o comunque contemporaneamente. È stato il mio primo sogno e non ho nemmeno preso in considerazione un piano B. Sono quindi arrivata alla maturità scientifica e quindi ho studiato composizione all’Istituto Musicale Giovanni Paisiello di Taranto. Arrivata al quinto e ultimo anno mi sono trasferita a Roma per proseguire gli studi con il maestro Nazario Carlo Bellandi. Un personaggio importante, studioso e docente al Conservatorio di Santa Cecilia, che arrivò anche a costruire un organo con le sue mani. E proprio in quel periodo inviai a Gianni Morandi una canzone, Questi figli, che lui poi decise di includere nel suo album Uno su mille del 1985. E questo mi permise di firmare un contratto con la RCA. Da lì ho iniziato a scrivere canzoni per altri e mi è stato proposto di interpretarle direttamente. Incidendo il primo album, Per paura o per amore, e partecipando a Sanremo con Fai Piano.

Canzone non semplice… invece di seguire la strada più facile, una scelta rischiosa.
Rischiosa ma nelle mie corde. Dietro le quinte Ron mi fece i complimenti. Un anno in cui vinse Michele Zarrillo e con in gara Paola Turci, Andrea Mirò, tanti nomi che poi si sono affermati. Io non saprei scrivere in modo funzionale, quello che faccio mi deve emozionare, prendere e toccare profondamente. È il mio modo di procedere, è un processo naturale seguendo determinati canoni che sono profondamente miei, e che mi rendono riconoscibile. Per me una canzone deve essere un breve momento cinematografico, con una sua narrazione e contenuto ben definiti.

Da subito nei tuoi testi emerge ricorrente la descrizione dell’amore nel rapporto fisico.  Ad esempio in pezzi del tuo secondo album come Il giorno e la notte o Dentro di me. È vero che venne censurata?
Stavo facendo le prove per un programma televisivo. Fui fermata e mi dissero che avrei dovuto modificare il testo per andare in onda il giorno dopo. Maurizio Costanzo lo venne a sapere e mi invitò più volte nella sua trasmissione, a proporla in versione originale. Quella canzone parlava della conoscenza del rapporto d’amore da parte di una donna, e chi meglio di una ragazza poteva rappresentarlo? Ma anche Fai piano narrava un’esperienza simile e in generale la letteratura che lo racconta deve avere libertà di espressione, mantenendo il giusto pudore senza offendere nessuno. Da allora sono passati tanti anni, e oggi credo che ci siano dei testi che vanno ben oltre le mie parole, in generi come la trap, per i quali invece non si dice, forse anche giustamente, nulla. Bisogna capire quale sia il limite da non superare prima di poter imbavagliare l’arte.

In quel disco c’era anche Il nodo, la gabbia, il seme… una canzone quasi da musical…
Gli arrangiamenti dell’album erano realizzati quasi tutti da Luis Bacalov insieme a Maurizio Tirelli con cui avevo collaborato nel precedente. Bacalov contribuì a questo brano scrivendone una parte. Accadde casualmente. In una pausa lo sentii suonare dei tanghi argentini e, essendo sempre stata affascinata da quel mondo, gli chiesi se avrei potuto scrivere un testo sulle sue improvvisazioni. Propose una lunga introduzione e io pensai a una storia che parlasse di libertà, di esperienze di chi aveva vissuto la dittatura e che si porta dietro una memoria che non si può cancellare. Ecco che ho ragionato su quei tre simboli (nodo, gabbia e seme) rappresentativi dell’animo umano e di quello che può vivere, fino appunto al seme della speranza, con altrettante parti musicali.

Parliamo di Spalle al muro del 1991. Come nacque la collaborazione con Renato Zero e come nasce una grande canzone come quella? Mi ricordo alla premiazione che salisti sul palco con lui. Eri molto emozionata…
Di fatto vi fui letteralmente trascinata… io non volevo salirci. Il brano me lo chiese lui. Musicalmente pensai a un mix tra il mio e il suo mondo, classico ma anche con richiami teatrali, considerata la sua eccezionale presenza scenica. E per la storia pensai alla vecchiaia, quell’essere messi fuori dai giochi, dal tempo. Ragionai sul momento della scadenza, quando si viene esclusi. Un po’ quello che sta succedendo oggi con l’accelerazione tecnologica. C’è chi riesce a starvi dietro e chi no restando spiazzato. O rottamato, come si usa dire oggi.

Lo stesso anno hai però di nuovo rischiato in prima persona con una composizione, Gli uomini, difficile da capire per chi si aspetta un tema orecchiabile. Con quei violini che dominavano ampi spazi…
Io ero già soddisfatta di andare a Sanremo come autrice per Renato Zero ma la casa discografica voleva portare anche me tra i Big. Tra l’altro un’edizione importante, perché il Festival stava recuperando la sua musicalità con il ritorno dell’orchestra avvenuto l’anno prima. Decisi di portare Gli uomini, anche se mi avevano consigliato diversamente. Sapevo ancora una volta di rischiare ma desideravo completare il mio percorso di conoscenza presso il pubblico, facendolo con una canzone senza ritmica, particolare e che non sfidasse Spalle al muro. Di fatto arrivai all’ultimo posto…

Nell’album Crescendo, registrato a Londra e arrangiato da Geoff Westley, tornano temi a te cari. L’apertura, affidata a La mia riva, sembra riprendere quello che avevi già ‘combinato’ con Dentro di me
Sono sempre tornata sull’esercizio della descrizione dell’amore, in brani come Pazza di te, Io in te tu in me. Del resto in quelle situazioni non si fissano i fiori e questo certo non l’ho inventato io. È giusto descrivere bene i riferimenti quando un amore è vissuto, respirato e provato. La poesia e il lirismo riescono a stanare e a distinguere questi aspetti di vita reale.

Ti cito tre canzoni: Terra mia, Così è la vita e Il cuore mio. Musicalmente le vedo legate da un filo conduttore… tra l’altro molto impegnative anche da cantare.
La prima fu premiata al Festival per la migliore musica, dopodiché mi presi qualche anno di pausa coincidente con l’interruzione della collaborazione con la ex RCA, da tempo BMG. Altri artisti erano rimasti senza casa discografica, e il brano era non a caso era contenuto nell’album Uscire che comprendeva anche Esco di scena. E in effetti fu così per quattro anni. Ritornai con un nuovo disco e poi finalmente a Sanremo nel 1999 ottenni il terzo posto e di nuovo il premio per la migliore musica. Un risultato che mi mise in pari con quanto accaduto in precedenza, dal punto di vista autorale e popolare. Potrei dire di essere stata ‘assolta’ e bene ‘accolta’, ottenendo la spinta per continuare. Vivendo una storia artistica con maggiori affermazioni ma senza il sostegno della casa discografica.

Nel 2013 hai anche fondato una tua etichetta Suoni dall’Italia…
Nel mio piccolo ho pensato di darmi da fare. Ho pensato a quello che accadeva in passato dove molte idee, anche le più belle, nascevano con entusiasmo anche in semplici incontri al bar tra i diversi artisti. Una storia che si è persa, mentre tutti siamo diventati delle isole, e non ci sono possibilità di incontro e condivisione vera. Ho quindi dato vita a un laboratorio dove lavorare a diversi progetti. Posso citare quelli con Mimmo Cavallo, Fausto Mesolella (scomparso nel 2017) e per il premio Bianca d’Aponte. Detto questo, è chiaro che bisogna avere a disposizione delle risorse, cosa non facile anche per le complicazioni burocratiche nell’accesso ad eventuali fondi pubblici. Ecco che parte di quello che mi entra dal lavoro lo reinvesto in questa iniziativa con un occhio anche ai giovani talenti. Ricordandosi che la canzone non è un prodotto che si commercializza mettendola su uno scaffale ma deve partire dall’emozione e non dall’induzione, da forzature come quelle degli ascolti in streaming e delle visualizzazioni. Altrimenti, alla lunga, se non c’è l’anima anche i tabulati dei guadagni non si riempiono.

In generale dalle tue canzoni si nota una grande attenzione alle storie che ti circondano. Mi vengono in mente brani come Dentro una rosa oppure Lo scontrino…
Dentro una rosa è una canzone nata da un fatto di cronaca. Un padre che aveva ucciso e sotterrato la figlia nel giardino non approvando la sua unione con la cultura occidentale. Un fatto che mi aveva toccato molto e ho pensato di raccontare questa storia in modo diverso, una figlia che spiega al padre la sua scelta, chiedendogli di piantare una rosa in attesa del suo ritorno. Per scrivere insieme la storia. Lo scontrino nasce anch’essa da un episodio reale. Spesso mi capita di incontrare persone che iniziano a parlare lasciandosi poi andare in dissertazioni che partono dal personale per poi andare sul politico e sociale. Ecco che ho messo insieme tutte queste cose in un testo, siamo nel 2017, dal quale traspariva già una certa inquietudine, quasi a presagire quello che avremmo poi vissuto nell’ultimo anno.

Parliamo infine dei tuoi prossimi progetti e di quali sono secondo te le prospettive…
Intanto sono impegnata nel progetto con Rossana Casale e Grazia Di Michele, iniziato prima del Covid con una serie di concerti, quindi la pubblicazione di brani come Anime di vetro e Segnali universali, e che porterà alla realizzazione di un album. Stiamo finalizzando le ultime canzoni e poi vedremo cosa accadrà. Ho poi il mio nuovo disco, anch’esso quasi pronto già dallo scorso anno, che avevo anticipato con il brano Povero Dio nato proprio nell’emergenza. Non è un tempo facile. Penso che anche quando ritroveremo una normalità sarà comunque diversa a quella di prima. E non parlo di mascherine e distanze ma del nostro essere interiore, profondamente cambiato nei nostri pensieri ed abitudini e necessità primarie. Il mondo avrà un altro assetto. E il mondo siamo noi.

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