Addetti ai livori

30 Gennaio 2008 di Stefano Olivari

L’attacco è sottile, quasi invisibile. A volte anche gridato a squarciagola. L’Inter favorita dagli arbitri, l’Inter aiutata nella conquista del secondo scudetto consecutivo. A leggere i giornali sembra che la seconda repubblica calcistica non abbia prodotto un bel nulla. E invece ha prodotto tanto: ha prodotto soprattutto l’onestà della nuova classe arbitrale, per dirla con Massimo Moratti. Collina non parla e non riceve telefonate da nessuno, gli altri men che meno. E allora perchè? Una delle ragioni è che chi vince entra facilmente nell’occhio del ciclone. L’altra mi sembra sin troppo evidente e si chiama Roberto Mancini. E’ rimasto sul gozzo a molti il suo successo dell’anno scorso, che si avvia a ripetere in questa stagione. Forse l’Inter di Cuper era più forte della sua, ma perse sciaguratamente quello scudetto che sta ancora gridando vendetta. E allora perchè tutto questo astio, questa rabbia repressa nei confronti di un tecnico vincente, spesso anche da parte degli stessi tifosi interisti?
Conosco Mancini da quando sedicenne cominciò a giocare a altisismi livelli nel Bologna e a comparire nelle nazionali giovanili. L’ho seguito passo dopo passo fino allo scudetto e alla finale di Coppa dei Campioni con la Samp. L’ho ritrovato tecnico dell’Inter. Ho scambiato con lui in tutti questi anni solo poche parole, insieme a quel tipo di intervista che usa da qualche tempo in conferenza stampa, in cui è difficile metterci qualcosa di proprio. Ci siamo salutati sempre solo con un cenno. L’ho capito da sempre, però, o almeno così penso. E’ uno che vuole vincere sempre. La frase che Boskov rivolse a lui nella notte in cui Koeman vietò alla Samp di entrare nella storia: non si è grandi se non si vince una Coppa dei Campioni, ce l’ha ancora impressa nell’animo. Forse proprio quella notte segnò il mutamento radicale del pensiero e delle azioni del Mancio. Quel che non aveva avuto da calciatore, nonostante sia stato un fuoriclasse indiscusso e indiscutibile, l’avrebbe conquistato da tecnico. Avrebbe potuto prendere in mano sin dagli ultimi anni della sua carriera sul campo una squadra, rinunciando agli spiccioli di gloria che non potevano aggiunge o togliere nulla a un calciatore ammirevole, ma in qualche modo ribelle, sempre mal disposto a lasciarsi prendere per i fondelli o a chinare il capo di fronte ai soprusi. Le sue storie e le sue proteste con gli arbitri sono arcinote, cosi come le sue squalifiche e le sue polemiche.
Il bagno d’umiltà, necessario per spiccare il volo anche ai più bravi, lo fece nella Lazio accettando il ruolo di secondo (non formalmente, ma in campo) di Eriksson. Imparò molto dallo svedese: forse la saldezza di nervi, da cui ogni tanto deborda avendo conservato lo spirito antico. Poi è stato un susseguirsi di polemiche sul suo conto. A qualcuno ha risposto per le rime, con altri ha preferito tacere. Questione di scelte, ponderate e meditate in attesa del suo momento. Spesso quando si lamentava degli arbitri e degli arbitraggi della prima repubblica calcistica, c’erano sorrisi se nondi scherno almeno di sufficienza nei suoi confronti. Alla lunga ha avuto ragione, così come sta avendo ragione adesso, con uno scudetto vinto sul campo, con l’altro ottenuto non senza ottimi argomenti sulla carta e con il prossimo che ne consacrerà magari definitivamente il valore. Eppure le critiche non mancano mai nei suoi confronti. Sono indirette per la paura che hanno in molti di un suo nuovo successo. E allora leggi a destra e a manca che l’Inter non ha un gioco, che le formazioni sono sbagliate, che cambia spesso uomini, che sembra un neofita in un mondo di vecchi marpioni.
Errore, grossolano anche. Perchè Roberto Mancini conosce bene il suo mestiere, perchè Lippi quando vinceva, e spesso l’ha fatto fino ad arrivare sul tetto del mondo, cambiava formazione forse come o più di Mancini. Parla poco? Non è vero neppure questo. Perchè parla quel tanto che basta e questo non lo porta quasi (gli errori appartengono a tutti i mortali) mai a dire banalità. La verità è che lo si odiava, senza buone ragioni quando non vinceva, e per le menti che popolano le galassie calcistiche è difficile fare un passo indietro e ammettere d’aver sbagliato. Anche questo rappresenta uno sprone per Roberto da Jesi, che mira a entrare nel novero dei più bravi sulla panca, roba che è riuscita a pochi, pochissimi assi che in campo erano divini e che una volta posti di fronte alla responsabilità del comando hanno finito per segnare il passo come soldatini in attesa dei comandi di un generale per muovere all’attacco. Il suo limite magari è quello di non cercare consensi. In questo è rimasto quel ragazzo sedicenne che incantava le platee di provincia con le varie nazionali giovanili giocando in maniera divina senza curarsi mai di una critica eccessiva, e ha avuto anche quelle, o di un elogio sperticato che sa spesso di giudizio da ruffiani. Mancini è fatto così e non lo cambierà nessuno. Conosce vizi e virtù dei giovani avendoli praticati, ha imparato l’arte e se ne frega delle critiche e dei tentativi di strumentalizzazione della sua figura. Non risponde a chi sussurra che lo spogliatoio nerazzurro è una polveriera pronta a esplodere al primo rovescio. Potrà perdere una partita, ma sa che il successo gli arriderà nella battaglia finale. Perlomeno in campionato, ma non è che prima di lui l’Inter fosse reduce da decenni di scudetti. Per questo va avanti per la sua strada. Ha regalato il primo scudetto a Moratti si avvia a conquistarne un secondo alla faccia delle Cassandre in servizio permanente effettivo. E chissà che non arrivi anche alla Coppa Campioni. Le tradizioni nerazzurre lo pretendono e lui, sotto sotto, culla proprio questo tipo di speranza. Non ha mai dimenticato la lezione di Boskov: non si è grandi se non si conquista l’Europa.

Federico De Carolis
fedecarci@hotmail.it

Share this article